Sono sempre più frequenti nella cronaca politica di tutti i giorni gli accostamenti alla prima Repubblica e i paragoni dei leader di oggi, veri o presunti, a personaggi che dagli anni Cinquanta in poi hanno fatto la storia del Paese.

Capita così di leggere che la conversione di Salvini somiglierebbe al corso che Craxi avviò nel partito socialista; che la Meloni sia l’interprete della borghesia meridionale alla maniera dei centristi moderati; che il PD cambi i segretari ma non si libera dalle stesse incertezze che hanno accompagnato le vicende dei democratici di sinistra.

Ci si è messo recentemente anche Antonio Polito che si è spinto sul Corriere della Sera a collocare l’ultima uscita di Conte alla stregua delle iniziali manifestazioni di Berlusconi e addirittura a uno stile definito “D.C. 4.0”.

Di solito è difficile non essere d’accordo con le analisi di Polito ma questa volta i due riferimenti sembrano francamente approssimativi.

Le uscite all’esordio di Berlusconi utilizzavano con rara abilità strumenti di marketing ed erano certo altra cosa rispetto al recente appello di Conte al termine di una violenta diaspora all’interno dei Cinque Stelle. I suoi richiami “alla giustizia sociale e ai valori” sono generici e superficiali, tanto più se evocati da un movimento che sin dalla sua origine ha fatto della contestazione a tutto campo la bandiera per la ricerca di consenso. Per non dire degli apporti incendiari alle campagne mediatiche contro la presunta casta di recente (e indecente) memoria.

Quanto al richiamo alla DC , che almeno per una volta sembra citata in termini non dispregiativi, siamo ancora più lontani. Se c’era un partito con una forte cultura di riferimento che si manifestava con programmi e alleanze era proprio la DC ed è francamente superficiale accostare frettolosamente l’appello di Conte ad una riedizione aggiornata del partito dei cattolici democratici. Di culture di riferimento oggi non si vede l’ombra da nessuna parte: non certo in Salvini, Meloni e in ciò che resta di Forza Italia, nonostante le più recenti conversioni sollecitate dal ruolo finalmente propulsivo della Unione Europea o dal nuovo corso di Mario Draghi. Né dallo stesso PD perennemente a metà del guado tra una cultura di governo e i richiami “de sinistra” con forti venature stataliste.

L’altro carattere che differenzia oggi tutti gli schieramenti dalle tradizionali forze politiche è  la forte personalizzazione degli attuali partiti. Fino agli esordi dell’avventura berlusconiana questo carattere non era certo prevalente nonostante la presenza di figure carismatiche che affermavano sul campo la loro autorevolezza. Basti pensare all’influenza di Aldo Moro quando la sua corrente aveva il sei per cento del partito, a quella di Ugo La Malfa con il tre per cento in Parlamento oppure di Craxi che era minoranza nel PSI fino allo storico congresso che lo scelse per la segreteria. Ad eccezione del PD, in perenne ricerca di un segretario prestigioso, i capi si identificano oggi con il partito sino ad apparire gli intoccabili.

Evocare genericamente la giustizia sociale e i valori non appartiene più né ai filosofi né ai galoppini di partito. Con la conseguenza che tutto passa, dai programmi generici alle alleanze a geometria variabile.

Guido Puccio

About Author