Il Cop26 ha dato quello che poteva dare. Non era difficile prevedere che si sarebbe concluso in modo che qualcuno avrebbe potuto parlare di bicchiere mezzo pieno, come fa la diplomatica vulgata generale, e altri di mezzo vuoto ( CLICCA QUI ). Alla guida dei primi c’è il Primo ministro britannico Boris Johnson. Da ospite ed organizzatore della conferenza di Glasgow non poteva dire altrimenti ( CLICCA QUI ). A suo avviso si è comunque giunti ad un accordo rivoluzionario che suona “la campana a morto per il carbone”.

Il punto è capire, però, quanto i rintocchi saranno destinati a prolungarsi a lungo nel tempo prima di vedere il trionfo completo delle tante energie alternative e molto meno inquinanti. Ad esempio, non dobbiamo dimenticare la lezione giunta da Donald Trump che ritrasse gli Stati Uniti dall’Accordo di Parigi e ridette pienamente via libera all’uso del carbone.

L’andamento delle cose, la concretizzazione degli impegni assunti dai paesi firmatari dell’accordo parigina, comunque, ci fanno ritrovare oggi di fronte al fatto che siamo ben lontani dal raggiungimento dell’obiettivo di mantenere l’aumento del riscaldamento globale entro l’1,5° gradi, così come previsto per il 2030, perché si parla in realtà di almeno un 2,7° ( CLICCA QUI ).

Tutti sapevamo che il Cop26 avrebbe riproposto la diversità di posizioni, soprattutto della capacità di potersi effettivamente impegnare, che dividono nettamente il mondo in due. Da una parte, i paesi evoluti industrialmente, ma in buona parte principali responsabili delle emissioni nell’atmosfera da oltre un secolo e mezzo. Prima, soprattutto quelle provocate dall’uso del carbone grazie al quale ha preso corpo la cosiddetta Rivoluzione industriale; poi, dall’utilizzo del petrolio e del gas e dall’abnorme sviluppo del traffico automobilistico e della diffusione del riscaldamento domestico. Dall’altra parte, il resto del mondo che ancora oggi si affida quasi esclusivamente all’uso del carbone e, persino, della legna per produrre, cucinare e riscaldarsi.

Così sappiamo, ma lo sapevamo già prima che si aprisse l’assise mondiale di Glasgow, che nel 2030 avremo il 13,7% in più di emissioni globali rispetto al 2010 mentre, per raggiungere l’obiettivo del contenimento degli aumenti delle temperature di 1,5°, sarebbe necessario avere riduzioni di almeno il 45% .

E’ evidente che la cultura ambientalista, ma anche la possibilità effettiva di utilizzare alternative energetiche meno inquinanti, portano i paesi ricchi a porsi con maggior forza e consapevolezza il problema del cambiamento climatico e della qualità della vita. I paesi più poveri, tra l’altro come Cina ed India molto densamente popolati, hanno d’altro canto il problema di assicurare condizioni esistenziali minime alle loro popolazioni, il cui soddisfacimento è sollecitato dalla globalizzazione la quale non è solamente un fatto economico e di scambio di merci, ma anche di conoscenza e d’informazione su come si vive a casa altrui, soprattutto.

Il regime cinese o i governanti indiani non possono certo andare a raccontare alla loro gente che i propri processi di crescita deve rallentare a causa della trasformazione dei sistemi produttivi, cosa che significherebbe un ristagno economico proprio nel pieno del loro inserimento nell’economia mondiale.

Il Cop 26 si è concluso con l’accettazione della precisa richiesta avanzata dell’India di modificare nel testo conclusivo la dicitura “eliminazione graduale” del carbone con quella di  “riduzione graduale”. Sembra una battaglia lessicale, ma in realtà c’è dietro tutto il peso delle disuguaglianze mondiali che ci dicono quanto ancora ci si dovrà impegnare per affrontare un problema reale e gravissimo che resta.

L’importante è che il compromesso al ribasso raggiunto a Glasgow non interrompa un processo che sarà comunque lungo e complesso e che non è detto non subisca persino ulteriori fasi di ristagno e di arretramento.

 

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