Ricorro, ancora una volta, ad una citazione di Jaspers per riflettere su due concetti che, peraltro, si articolano l’uno nell’altro.

“Ma che cos’è la libertà?”, si chiede il filosofo tedesco, uno dei maestri dell’esistenzialismo, non a caso, ad un tempo, psichiatra e filosofo. “La libertà esterna di uno Stato – prosegue – e quella interna tramite la sua forma di governo si costituiscono mediante la libertà esistenziale dei singoli uomini. Da ciò deriva l’ambiguità del termine “libertà”; anche uno Stato dispotico può godere di libertà esterna; anche un popolo di individui non liberi interiormente può avere una Costituzione democratica. La libertà inizia dalla libertà dei singoli….”.

Insomma, non esistono ordinamenti o costituzioni, legislazioni, regole o quant’altro possa garantire  una condizione autentica di libertà, senza che questa sia radicata nella coscienza di ognuno.

Non ci sono soluzioni strutturali che, di per sé, meccanicamente, per una sorta di virtuosa necessità intrinseca all’ordine delle cose, in maniera automatica, facciano sbocciare il fiore della libertà.

E’ indispensabile affaticarsi attorno alle architetture istituzionali e normative che ordinano la vita della collettività, ma il luogo originario in cui si afferma la libertà è pur sempre lo spessore dell’interiorità in cui ognuno vive e sperimenta il proprio modo, unico ed irripetibile, di stare di fronte al mondo, responsabilmente, cioè, in definitiva, facendosene carico.

E’ una riflessione che, nel contempo, sfida ed incoraggia, chi si pone nell’ottica di una cultura personalista, che nulla ha a che vedere, beninteso, con una involuzione intimistica del soggetto, ma, anzi, lo apre a quel mondo di relazioni che trova la sua ultima e più vasta cornice nella politica.

Non si spiegherebbe altrimenti come la politica possa essere la più alta forma di carità, se non perché il saper giudicare e, fin dove umanamente possibile, se non guidare, almeno influenzare il corso degli eventi secondo le sue categorie interpretative, conferisce all’azione  degli uomini, nella concretezza quotidiana del processo storico, la sua più pervasiva ed ampia portata.

Insomma, la politica, la facoltà di “pensare politicamente” è una risorsa cui tutti ed ognuno ha il diritto ed, insieme, il dovere di accedere.

Sorge spontanea una domanda, forse inusuale e provocatoria: il compito di una forza di ispirazione cristiana e, dunque, di per sé, di cultura personalista, è davvero, anzitutto e soltanto, quello di sbarcare dentro il “palazzo” della politica, tradizionalmente intesa e delle istituzioni, oppure anche, per contro, quello di snidare la politica fuori dal palazzo e riportarla tra la “gente”, perché si vada oltre questa definizione generica, cosicché la gente diventi “popolo” e la stessa collettività si traduca in “comunità” ?

Senza che questo significhi rifluire nella sfera generosa e pur sempre un po’ asettica e fredda del pre-politico, ma assumendo con determinazione un compito di militanza, in termini schiettamente, apertamente di “partito politico”.

Senza che, in perfetta buona fede, nelle pieghe delle pur necessaria e vitale “formazione delle coscienze”, si nasconda inavvertitamente un peccato di omissione, che oggi non possiamo più permetterci.

Andrebbe riletta la splendida omelia che il Cardinal De Donatis ha pronunciato celebrando la Messa funebre di Luca Attanasio e di Vittorio Iacovacci, la forza, inusuale nella sua franchezza perfino rude, con cui ripercorrendo la storia biblica di Ester, ci ha invitato a “sporcarci le mani”.

Resterebbe da dire – in altra occasione e, peraltro, già più volte ripercorsi – dei due concetti di cui sopra: il fatto che, quanto più una società è complessa, tanto più può essere governata solo a prezzo di un forte incremento di maturità civile e, correlativamente, il fatto che oggi la libertà, ancor prima e più che come diritto da rivendicare, vada declinata come dovere da compiere.

Domenico Galbiati

About Author