Ferruccio de Bortoli ha provato a far fare un salto di qualità al dibattito già ampio sul dopo Coronavirus. La pandemia impressiona per gli aspetti esistenziali e sanitari, ma già evidenti sono gli scenari aperti sul futuro. Non solo di carattere epidemiologico. Bensì economico e di tenuta del quadro sociale in cui ci siamo mossi negli ultimi decenni.
Quando il primo ministro cinese è costretto a sostenere che il suo paese non può più fare previsioni sul ritmo di crescita e di produzione dice che il gigante economico dell’Oriente per un certo periodo di tempo non sarà più in grado di seguire i ritmi di crescita degli anni passati. Ciò significa che avremo tutti nel mondo problemi di interscambio commerciale d’inaudita potenza, taluni mercati si contrarranno e che sarà, quindi, necessario riequilibrare le linee seguite almeno nell’ultimo decennio.
Quando dagli Usa giunge notizia che tra disoccupati e inoccupati è stata superata la cifra di 38 milioni di persone ( CLICCA QUI ), con un ritmo di circa 2,5 milioni la settimana, vuole dire che tutto verrà rimesso in discussione. Guarda caso,Vladimir Putin invia i suoi caccia bombardieri a rafforzare Haftar in Libia e Trump annuncia l’uscita dal trattato “Open skies”, ponendo un problema anche agli alleati della Nato, ma soprattutto alzando ulteriormente il livello critico nelle relazioni con la Russia.
Ora, senza entrare nel merito dei cambiamenti che l’epidemia Coronavirus finirà per avere anche sulla geopolitica, è necessario riflettere sul percorso da intraprendere per uscire da una fase resa particolarmente critica dal fatto che, assieme, siamo finiti in una crisi di domanda e d’offerta. Non si produce, ma neppure si acquista. Il crollo del prezzo del petrolio è in questo senso emblematico ed esplicativo ( CLICCA QUI ).
Questo profondo squilibrio sarà superato come altri l’umanità è stata in grado di fare. Ogni crisi, soprattutto quelle da cui si è usciti nel passato con accelerazioni tecnologiche o produttive, ha però lasciato morti e feriti, che si siano trattati di stati, di grandi banchieri o d’imprenditori.
Sarebbe bello se il mondo intero, com’è entrato in questa situazione, ne uscisse tutto assieme positivamente. Molto probabilmente questo non avverrà e, per quanto ci riguarda, dobbiamo preoccuparci delle nostre cose. Di tutto quello che già agli inizi di quest’anno non faceva sperare in niente di buono. Si tratta di problemi storici e strutturali che, come si fa con la polvere, i nostri gruppi dirigenti hanno finito per provare a nascondere sotto il tappeto.
La riflessione, ovviamente, ci riguarda tutti. Riguarda in particolare il mondo dell’impresa. Da decenni oramai in crisi e, spesso, costretto a contare su interventi pubblici, in questi giorni richiesti ancora a più viva voce. Persino i più accaniti liberisti, o i loro giornali, che poi sono la maggioranza di quelli che si trovano in un’edicola italiana, si muovono chiaramente nella logica dello stato di emergenza che spinge a rivolgersi alla cassa comune.
Sarebbe facile rispondere che nel momento della bisogna si torna a “pubblicizzare” le perdite sapendo, ovviamente, che domani con la stessa disinvoltura si “privatizzeranno” i ricavi. E’ accaduto tante volte soprattutto in Italia e non ci sarebbe molto da meravigliarsi.
Forse è più importante fare tutti un salto di qualità e riscoprire la “responsabilità” sociale del nostro agire. Ai politici, ai responsabili della cosa pubblica, ai ceti apicali della nostra società dobbiamo chiedere di operare non per tornare ad uno “statalismo” trasformato in un mero condizionamento di ambiti economici cui deve essere assicurata, invece, una propria esclusiva capacità d’intervento. La presenza pubblica, oggi, oggettivamente più che mai necessaria, dev’essere principalmente asservita alla creazioni di quelle reti, di quelle “infrastrutture”, di quei vitali punti cruciali attorno cui può essere avviata una ripresa. Poi, dovranno essere le imprese, le forze sociali e civili a fare il loro mestiere. Le imprese devono assumere pienamente, però come forse non hanno mai fatto, una responsabilità pubblica la quale, del resto, dovrebbe sempre stare alla base di quei principi etici che, pure, nel capitalismo qualcuno ha voluto ravvisare.
E’ bene, quindi, che Ferruccio de Bortoli si sia preoccupato della reazione alla crisi da parte della classe dirigente del Paese. E’ stato bene che queste sue riflessioni siano state riprese da Silvio Berlusconi. Egli, con una lettera al Direttore del Corriere della Sera ( CLICCA QUI ) ha dato subito una risposta concreta rivolgendosi suoi “ colleghi imprenditori, ma anche ai grandi manager” per invitarli a sedere intorno al tavolo andando oltre la “filantropia individuale” e pensando all’intero Paese. Berlusconi ha indicato un terreno d’impegno che, a mio avviso, è importante: “un grande investimento nell’alta formazione, che tradizionalmente in Italia è debole e che nei momenti di crisi viene ulteriormente penalizzata”.
C’è da sperare che il capo di Forza Italia riesca nell’impresa di raccogliere tanti “comandanti coraggiosi” attorno al suo progetto. Questa volta impegnati non a risolvere loro questioni di bottega, ma quelle di un “tessuto collettivo qualificato”, come Berlusconi lo definisce. Lo spero constatando, però, che quell’invito non sembra aver trovato finora l’adeguato ascolto, almeno ufficialmente. Eppure, potrebbe davvero segnare una svolta per l’imprenditoria italiana se essa, magari per una parte significativa, intendesse tornare un po’ a quello spirito della ricostruzione del Paese, che fu in gran parte azione pubblica, in cui seppe trovare l’adeguato coinvolgimento.
Resto convinto che il vero modo di affrontare i nostri problemi, quelli veri del Debito pubblico, degli investimenti, dell’occupazione, non debba solo essere quello di chiedere ed ottenere aiuti dall’Europa. Che pure ci servono come l’aria in questi giorni, e prima arrivano e meglio è.
Giovanni Bazoli ha ripreso le riflessioni di Ferruccio de Bortoli e di Giulio Tremonti indicando una strada, la più diretta, la più cristallina, la più forte e la più efficace ( CLICCA QUI ): siano gli italiani a trovare i 300 miliardi che servono con “ un grande prestito non forzoso, finanziato dagli italiani e garantito dai beni dello Stato”.
E’ evidente che ciò sarebbe possibile se finalmente venissero esempi di concordia e di responsabilità collettiva. A partire da chi ha la responsabilità della gestione della cosa pubblica, dai politici e dalle forze sociali, ma anche dagli imprenditori e da quanti hanno grandi risorse da investire e, in ogni caso, da far fruttare. Se cominciassero finalmente a scommettere concretamente sul loro futuro in Italia porterebbero un’ulteriore ragione a quanti sono convinti dell’urgenza di iniziare a investire su noi stessi.
Giancarlo Infante
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