La pandemia del Covid-19 costituisce un buon esempio di quello che nell’analisi delle politiche pubbliche è chiamato “focusing event”, un evento che – per la sua natura dannosa, inaspettata e improvvisa – forza opinione pubblica e decisori politici a inserire nell’agenda pubblica e istituzionale temi che non necessariamente vi sarebbero entrati o che almeno non lo avrebbero fatto con la stessa forza, la stessa visibilità e la stessa rapidità. In altre parole, è un evento di tale portata che – per un certo lasso di tempo – sconvolge l’intero processo pubblico di agenda setting, focalizza l’attenzione collettiva su alcuni temi distogliendola da altri, ridefinisce rapidamente le priorità, aiuta a superare (almeno in parte e a certe condizioni) inerzie istituzionali e resistenze al cambiamento, agendo come potenziale innesco per un cambio di policy (Birkland 1998).
Si tratta quindi di un fenomeno estremamente rilevante sul piano politico da almeno tre punti di vista.
In primo luogo, la salienza politica di un focusing event si coglie se si considera che una delle funzioni più importanti della politica consiste proprio nello stabilire le priorità collettive, “operando un taglio” fra le alternative praticabili: decidere (dal latino decaedo) significa innanzitutto stabilire che cosa è meritevole di intervento (pubblico) e che cosa no e, nel caso, quando intervenire. Insomma, definire l’agenda. Una crisi come quella in corso altera improvvisamente l’ordine del giorno delle questioni che meritano di essere oggetto di attenzione e decisione, restringendo in tal modo uno dei campi di azione cui la politica è preposta: le priorità sono infatti “date” più che “decise”; possono tornare alla ribalta problemi “dormienti” o affacciarsi sulla scena problemi del tutto nuovi. In secondo luogo, lo stato di emergenza innescato da un focusing event come quello del Coronavirus (ma potremmo pensare anche a un disastro naturale come un terremoto o un uragano) tende ad accrescere la libertà di manovra del governo che – in nome dell’urgenza imposta dalla crisi – è chiamato ad assumere provvedimenti eccezionali. Spetta a chi detiene il potere prendere le decisioni necessarie per fronteggiare la crisi e farlo in tempi ragionevolmente rapidi: come noto, si tratta proprio dei casi “straordinari di necessità e urgenza” contemplati anche dalla nostra costituzione. L’urgenza – e questo è il terzo punto – anche grazie al fatto che legittima il ricorso a strumenti decisionali eccezionali, tende a indebolire punti di veto, a ridurre resistenze istituzionali di varia natura e ad aprire “finestre di opportunità” (Kingdon 1993; 1995) che possono facilitare l’adozione accelerata di specifici provvedimenti. L’evidenza di una crisi può inoltre generare un vantaggio a favore di chi, prima poco ascoltato, segnalava l’inadeguatezza dello status quo.
Ovviamente l’effetto sulla ridefinizione delle priorità (rispetto a un mese fa, sembra a tutti più urgente, ad esempio, prendere decisioni sul Servizio Sanitario Nazionale che emanare nuove norme sui tempi di prescrizione dei reati) non restringe il perimetro delle alternative possibili in merito alle soluzioni da adottare, almeno in un sistema democratico. Il dibattito fra forze di maggioranza e di opposizione rispetto a quali siano i provvedimenti da assumere per fronteggiare al meglio la crisi in corso e la consultazione dei partiti di minoranza e delle parti sociali da parte del Governo prima dell’adozione dei provvedimenti d’urgenza sono tutti elementi che restituiscono chiaramente la persistenza – anche in uno stato di eccezione come quello attuale – di una dialettica positiva e il tentativo di contemperare l’esigenza di assumere decisioni tempestive con l’imperativo di preservare il funzionamento democratico del processo decisionale. Segnalano al contempo l’assenza di automatismi nella catena “irruzione della crisi-ridefinizione dell’agenda-presa delle decisioni”.
Ora, lasciando sullo sfondo il tema relativo al rafforzamento del potere decisionale del governo, ai pericoli insiti in questa dinamica e al dibattito emergente sulla maggiore o minore efficacia di un sistema democratico rispetto a uno autoritario di fronte a una crisi (c’è chi si chiede se sia preferibile il “modello cinese” o quello italiano) e pur sapendo che le tre questioni accennate sono strettamente intrecciate, proviamo ad approfondire la prima e la terza questione: ovvero in che modo la crisi innescata dalla diffusione del virus stia alterando in Italia il processo di definizione dell’agenda politica e se stia favorendo o meno un cambiamento sul piano delle politiche. Ci si occupa di temi prima non sempre in cima all’agenda e lo si fa molto più rapidamente che prima della crisi: ma in che direzione ci si sta muovendo? In continuità o in discontinuità con lo status quo? E con quali possibili effetti?
A partire dal Decreto “Cura Italia” approvato dal Governo Conte il 17 marzo scorso, consideriamo in particolare le politiche di welfare e gli interventi volti a mitigare gli effetti sociali della diffusione del virus. Se la politica sanitaria è ovviamente la prima ad essere chiamata in causa, a cascata le misure di salute pubblica adottate per il contenimento del contagio stanno facendo entrare (o rientrare) improvvisamente nell’agenda anche altri temi centrali per il sistema delle politiche sociali, mettendo in evidenza – con molta più chiarezza di prima e a una platea di soggetti certamente più ampia – i tanti nervi scoperti del “welfare state all’italiana”: dalle politiche del lavoro e di sostegno al reddito, da quelle familiari a quelle per le persone più anziane.
Quali priorità, quali soluzioni?
Il Servizio Sanitario Nazionale
La prima osservazione, e la più ovvia, è che la diffusione di questa nuova malattia ha finalmente convogliato l’attenzione dell’opinione pubblica e delle istituzioni su un tema centrale per il nostro sistema di welfare, tema caro agli addetti ai lavori, ma rimasto ai margini nel dibattito politico degli ultimi vent’anni: le (precarie) condizioni di salute del Servizio Sanitario Nazionale (SSN).
Una lettura in chiave comparata illustra chiaramente il sottofinanziamento del SSN. Il tasso di crescita del suo finanziamento è stato sostanzialmente azzerato a partire dal 2011 (fra 2009 e 2017 l’aumento annuo è stato in media pari allo 0,3%). Nel 2017 la spesa sanitaria pubblica italiana era pari ad appena il 6,5% del Pil a fronte di una media UE dell’8% (nel 2009, in Italia, era il 7%), incidendo sul totale della spesa sociale pubblica per il 23,1% a fronte del 29,5% osservabile in media negli Stati UE. Un ultimo indicatore illustra chiaramente il divario fra l’impegno finanziario italiano nel campo delle politiche sanitarie e quello profuso dagli altri Paesi europei: si tratta del valore della spesa sanitaria pubblica pro capite a parità di potere d’acquisto, che nel 2016 in Italia era inferiore di oltre 500 euro a quello calcolato mediamente in Europa (1.811,35 euro in Italia contro i 2.338,03 euro della media UE; dati Eurostat).
Su questo sfondo, gli ammirevoli sforzi profusi in queste settimane dal SSN e dal suo personale possono apparire sorprendenti solo in parte. Da tempo chi studia i sistemi sanitari mette in guardia rispetto al fatto che “[t]enere performance sanitarie [ottime; n.d.r.] come quelle italiane con una spesa così significativamente inferiore rispetto al resto dell’Europa occidentale è molto arduo […] e richiede prezzi da pagare. Prezzi che sono stati pagati dai professionisti della sanità e da una parte di coloro che hanno accesso ai servizi. Il SSN infatti si regge su molti meno infermieri che altrove, oltre che su medici mediamente più vecchi: non c’è stato ricambio generazionale adeguato in questi anni, né si è investito sul potenziamento delle figure non mediche” (Pavolini e Jessoula 2019). Se da un lato un sistema sanitario già ai limiti delle proprie capacità produttive è “allenato” a funzionare “a pieno regime”, dall’altro non ha consistenti margini di espansione, almeno nell’immediato, proprio perché girava a pieno regime già prima della crisi.
L’imperativo del contenimento dei costi, che ha dominato il dibattito italiano sulle politiche sanitarie degli ultimi due decenni e che ha determinato – fra le altre cose – una contrazione del personale (soprattutto tramite la riduzione del turnover), sembra ora improvvisamente ridimensionato dall’irruzione nell’agenda di una questione sanitaria come l’attuale pandemia. Il Decreto “Cura Italia” sembra infatti segnare una significativa inversione di tendenza, stanziando una cifra non marginale – circa 3 miliardi – a favore del SSN allentando molti vincoli finanziari attraverso deroghe alla normativa esistente. Per il 2020 il livello del finanziamento del fabbisogno sanitario nazionale standard cui concorre lo Stato è incrementato di 1,41 miliardi di euro, cui si aggiungono 1,65 miliardi stanziati per alimentare le disponibilità del “Fondo per le Emergenze Nazionali”. È così previsto un finanziamento aggiuntivo per coprire il lavoro straordinario del personale sanitario, nuove assunzioni (a tempo determinato) da parte del Ministero della Salute e dell’INAIL, deroghe ai limiti di spesa per le aziende sanitarie coinvolte in azioni di potenziamento dell’assistenza territoriale, misure eccezionali quali la possibilità di requisire, da ogni soggetto pubblico o privato, presidi sanitari e medico-chirurgici, beni mobili e immobili. Il Decreto prevede poi il potenziamento della sanità militare (arruolamento temporaneo di medici e infermieri militari, assunzione urgente di tecnici presso le strutture sanitarie militari, acquisto di nuovi dispositivi medici, la possibilità di produrre e distribuire disinfettanti, germicidi o battericidi). È inoltre incrementato di 4 milioni di euro il finanziamento dell’Istituto Superiore di Sanità, cui è riconosciuta la possibilità di aumentare il proprio personale di 50 unità (a tempo determinato).
Il sostegno al lavoro e al reddito
Allargando il perimetro dell’analisi, l’emergenza COVID-19 invita a prendere in esame anche altre aree del sistema di welfare italiano la cui storica inadeguatezza si segnala in modo particolarmente evidente in queste settimane.
Le conseguenze sul sistema produttivo e sulle dinamiche del mercato del lavoro delle misure restrittive di salute pubblica adottate in queste settimane (a partire dalla chiusura degli esercizi commerciali diversi da quelli destinati alla vendita di beni di prima necessità) riportano innanzitutto alla ribalta la questione del sostegno al reddito delle fasce più deboli. Come messo in luce da Fabrizio Barca e Cristiano Gori in un contributo per il Forum Disuguaglianze e Diversità, in questa fase la preoccupazione principale deve essere che le misure di emergenza adottate siano tempestive e concepite da subito per contrastare, anziché creare o amplificare, le disuguaglianze. È possibile perseguire questo obiettivo adottando un approccio universale, orientato a raggiungere anche le fasce più vulnerabili della popolazione (non solo quelle già più garantite o più attrezzate per fare sentire la propria voice nel processo decisionale), e al contempo pragmatico, capace di far leva, adattandoli se necessario, sugli strumenti di policy già a disposizione e quindi rapidamente e facilmente attivabili. Sul piano teorico, le direttrici lungo le quali agire sono tre: 1) espansione verticale, ovvero un aumento della generosità delle prestazioni già in essere, 2) espansione orizzontale, attraverso l’ampliamento della platea di beneficiari tramite una modifica delle regole di eleggibilità, un’efficace comunicazione ai beneficiari; 3) espansione dei tipi di intervento, riconoscendo automaticamente a chi è già beneficiario di un certo intervento altre forme di sostegno.
Con il Decreto Cura Italia il Governo ha predisposto norme speciali che determinano un’espansione verticale e orizzontale della Cassa Integrazione e dell’Assegno Ordinario gestito dai Fondi di solidarietà istituiti dalle parti sociali (a carico del bilancio dello Stato). I trattamenti di sostegno al reddito adottati in conseguenza della crisi saranno accessibili attraverso modalità semplificate e agevolate, e non saranno conteggiati nei limiti della durata massima prevista dalla Legge; la Cassa in deroga varrà (su iniziativa delle Regioni e delle Province autonome) anche per le imprese con un solo dipendente e sarà estesa a tutti i settori del privato, compreso quello agricolo, della pesca e del Terzo settore. Risultano tuttavia esclusi, come vedremo più avanti, i lavoratori domestici. Secondo Barca e Gori l’espansione della Cassa Integrazione è una misura adatta a intercettare le vulnerabilità del “lavoro dipendente stabile e autonomo di piccole, medie e grandi imprese resilienti”, che è tuttavia solo una delle tante possibili fattispecie, oltretutto sempre meno frequente nell’attuale sistema di mercato.
Per tutti gli altri lavoratori – saltuari e irregolari, autonomi o dipendenti di piccole imprese non resilienti, dipendenti precari di PMI e grandi imprese – converrebbe invece immaginare, a seconda dei casi, adattamenti ed espansioni degli altri due strumenti di sostegno al reddito già esistenti: la NASpI e il Reddito di Cittadinanza. La strada seguita dal Governo è stata invece diversa. Ad oggi, per i liberi professionisti titolari di Partita Iva, i lavoratori titolari di rapporti di collaborazione coordinata e continuativa, i lavoratori autonomi iscritti alle Gestioni speciali dell’Assicurazione generale obbligatoria (Ago), gli operai agricoli a tempo determinato, i lavoratori stagionali del turismo e degli stabilimenti termali e i lavoratori dello spettacolo il Decreto “Cura Italia” ha infatti previsto, per il mese di marzo, un’indennità una tantum di 600 euro, a domanda individuale e sino ad esaurimento delle risorse stanziate.
Come osserva Chiara Saraceno, se è vero che il Decreto stabilisce per 60 giorni l’impossibilità di procedere a licenziamenti individuali (per ragioni economiche) e collettivi, c’è tuttavia da interrogarsi anche su che cosa sia stato messo in campo per chi il lavoro l’ha già perso (per via di un mancato rinnovo del contratto) a causa dell’emergenza. Chi ne ha diritto, potrà avvalersi della NASpI o Dis-Coll, la cui dotazione finanziaria non è però stata incrementata dal Decreto. Per gli altri, il Decreto istituisce un nuovo “Fondo per il reddito di ultima istanza”. Una soluzione, questa, che appare in controtendenza con gli sviluppi sopra auspicati, ovvero l’adattamento, in chiave universale, di strumenti già disponibili e rapidamente attivabili, a partire dal Reddito di Cittadinanza: “sarebbe stato più opportuno – sottolinea Saraceno – rafforzare e adattare questo, per fronteggiare il probabile aumento di aventi diritto”.
L’assistenza agli anziani
In tempi di isolamento sociale forzato, emerge poi finalmente nel dibattito pubblico la questione delle persone anziane sole, fragili, bisognose di qualche forma di assistenza. Nonostante le forti pressioni funzionali demografiche che da tempo chiamano in causa la sostenibilità del sistema italiano di protezione sociale (gli individui con almeno 65 anni sono già oggi il 22,8% della popolazione; Istat), il tema dell’invecchiamento non è mai riuscito a fare breccia nell’agenda di policy nazionale (Gori 2019). È stato calcolato che, negli ultimi 20 anni, sono state avanzate ben 18 proposte di riforma, delle quali una soltanto – l’istituzione del modesto Fondo Nazionale per le Non Autosufficienze – è stata effettivamente adottata (Pesaresi 2018).
Oggi, la vulnerabilità delle persone anziane rispetto al Coronavirus, particolarmente aggressivo nei loro confronti, e le difficoltà per famiglie e assistenti familiari (le cosiddette “badanti”) a raggiungerli per prendersene cura portano al pettine il nodo della totale inadeguatezza delle attuali forme di assistenza per le persone anziane. Negli anni, ad esempio, l’assistenza domiciliare (SAD) offerta dai Comuni per piccoli servizi domestici, disbrigo di pratiche e commissioni – che in un momento come quello attuale potrebbe svolgere un ruolo importante nel contrastare la solitudine e ridurre gli spostamenti della fascia di popolazione più esposta al rischio del contagio – non solo non è stata rafforzata, ma ha al contrario subìto restrizioni e limitazioni all’accesso. Fra 2010 e 2016 si è registrato un calo del 25% di spesa e utenti e nel complesso la spesa sociale pro capite dei Comuni per gli anziani è crollata da 119 euro nel 2003 a 92 euro nel 2016 (Istat 2019).
Nel pieno della crisi sanitaria, le soluzioni di “welfare fai da te” – basate su un milione di badanti (regolari e irregolari; Fosti e Notarnicola 2019) – ci pongono di fronte a una serie di questioni inedite che, tuttavia, non fanno altro che portare alla luce l’intrinseca debolezza delle forme di “bricolage familiare”, peraltro denunciata da tempo da tutti gli esperti del settore. Per timore del contagio vi è infatti il serio rischio che colf e badanti decidano di interrompere il rapporto di lavoro (lasciando così soli gli anziani), ma anche quello – denunciato dalle principali associazioni dei datori di lavoro domestico e dalle organizzazioni sindacali – che siano le famiglie a interromperlo; in conseguenza della sospensione di molte attività lavorative, le famiglie si trovano infatti con più tempo e meno risorse economiche a disposizione. In un comunicato unitario Cgil, Cisl e Uil si sono appellati alla Ministra del Lavoro perché questi lavoratori fossero inclusi tra i beneficiari della Cassa Integrazione in deroga, così da scongiurare “un grave pregiudizio del reddito di queste lavoratrici e lavoratori, che possono andare incontro addirittura alla perdita dell’alloggio”. L’appello, tuttavia, non è stato accolto dal Governo, che nel Decreto “Cura Italia” ha esplicitamente escluso il lavoro domestico dalle misure di integrazione salariale in costanza del rapporto di lavoro. Il provvedimento d’urgenza si limita per ora a disporre la sospensione dei termini relativi ai versamenti dei contributi previdenziali e assistenziali e dei premi per l’assicurazione obbligatoria dovuti dai datori di lavoro domestico in scadenza nel periodo dal 23 febbraio 2020 al 31 maggio 2020, posticipandoli al 10 giugno 2020.
Se a ciò si aggiunge che, nel corso del tempo, l’assenza di una regolazione dei flussi migratori per i lavoratori domestici e la prevalenza di trasferimenti monetari non vincolati da parte dello Stato hanno contribuito allo sviluppo di un consistente mercato sommerso, non è uno scenario improbabile che molte assistenti familiari si troveranno improvvisamente a rischio di perdere il lavoro (senza il preavviso minimo previsto dal Contratto nazionale), il reddito e, in molti casi, anche l’alloggio.
Per chi non potrà contare né su una badante né sulla famiglia, risulteranno sempre più centrali iniziative basate sull’impegno di volontari, come quelle organizzate da Auser in diverse regioni italiane: servizi definiti di “telecompagnia e ascolto”, segretariato sociale, consegna della spesa e dei medicinali e in alcuni casi trasporto per le persone dializzate e che necessitano di cure salvavita.
L’assistenza ai minori e alle persone con disabilità
All’accudimento degli anziani si aggiunge quello degli altri soggetti fragili all’interno dei nuclei familiari. La combinazione della chiusura delle scuole con la non totale chiusura dei posti di lavoro e l’impossibilità di adottare forme di lavoro a distanza in tutti i contesti ha infatti comportato l’imporsi di un tema prima quasi automaticamente considerato di pertinenza familiare: quando scuole di ogni ordine e grado sono chiuse chi si prende cura dei bambini? Difficile, in questo periodo, rispondere “i nonni” (come fa abitualmente la maggior parte dei genitori in Italia), dato che sono proprio quei soggetti che – anche se attivi e in buona salute – più di tutti gli altri sono tenuti a rispettare le norme sul “distanziamento sociale”. Ed è così che ci si trova all’improvviso a parlare di “voucher babysitter” e di specifici congedi parentali.
Ai genitori lavoratori dipendenti del settore privato, con figli fino a 12 anni, il Decreto “Cura Italia” ha infatti riconosciuto il diritto a fruire – per un periodo continuativo o frazionato non superiore a quindici giorni – di uno specifico congedo, che consiste in una indennità pari al 50% della retribuzione: superiore al 30% del congedo parentale, ma molto inferiore all’80% della maternità obbligatoria. Appare inoltre saltata la modulazione della generosità dell’indennità in funzione dell’Isee, inizialmente presa in esame dal Governo. La fruizione del congedo è riconosciuta alternativamente ad entrambi i genitori. Gli eventuali periodi di congedo parentale fruiti dai genitori durante il periodo di sospensione delle scuole e delle attività didattiche sono convertiti in questo nuovo, specifico congedo e non computati né indennizzati a titolo di congedo parentale. Con i dovuti adattamenti, il nuovo congedo è esteso anche ai lavoratori autonomi iscritti in via esclusiva alla Gestione separata e a quelli iscritti all’INPS. In ogni caso, i limiti di età vengono meno se si tratta di figli con disabilità (ai sensi della Legge 104/1992), iscritti a scuole di ogni ordine e grado o a Centri Diurni. Ai lavoratori dipendenti del settore privato, genitori di ragazzi fra i 12 e i 16 anni, è inoltre riconosciuto il diritto di astenersi dal lavoro – se nel nucleo non c’è un genitore percettore di sostegno al reddito o disoccupato e per il periodo di sospensione dei servizi educativi per l’infanzia e delle attività didattiche nelle scuole – senza corresponsione di indennità né riconoscimento di contribuzione figurativa, ma con diritto alla conservazione del posto di lavoro (divieto di licenziamento da parte dell’impresa).
In alternativa al congedo è prevista la possibilità di scegliere un bonus per l’acquisto di servizi di baby-sitting (nel limite massimo complessivo di 600 euro), erogato mediante il “libretto famiglia”, libretto nominativo prepagato che nel 2017 ha preso il posto dei più noti “voucher”; l’importo del bonus sale a 1.000 euro per i lavoratori dipendenti del settore sanitario, pubblico e privato accreditato, nonché per il personale del comparto sicurezza, difesa e soccorso pubblico impiegato per le esigenze connesse all’emergenza. La natura macchinosa delle procedure per l’acquisto e l’attivazione del libretto famiglia, combinata con il mancato incentivo – negli ultimi anni – allo sviluppo di un robusto mercato regolare e professionale di servizi alla persona (compresi quelli di baby-sitting), porta tuttavia a ritenere alquanto improbabile che l’iniziativa riesca a decollare, rendendo quindi ipotizzabile che le famiglie opteranno più frequentemente per la soluzione del congedo parentale. Questo presenta tuttavia alcune criticità a partire dal fatto che – soprattutto se trasferibile – tende a essere fruito da chi nella coppia (solitamente la donna) percepisce un salario più basso, aggravando così i divari di genere già molto forti. La bassa generosità dell’indennità prevista potrebbe inoltre spingere a scegliere di anticipare le ferie, soprattutto tra le fasce a reddito più basso.
Ai genitori di figli con disabilità sono inoltre riconosciute dodici giornate di permesso retribuito, usufruibili nei mesi di marzo e aprile 2020, in aggiunta a quelle già previste dalla Legge 104/1992. Lo stanziamento da parte dello Stato è di 500 milioni di euro e le domande saranno accolte fino ad esaurimenti dei fondi. Per venire incontro ai caregiver lavoratori che si prendono cura di un familiare disabile grave e alle esigenze dei lavoratori con grave disabilità è inoltre riconosciuto (fino al 30 aprile) il diritto al lavoro agile, nei limiti della sua compatibilità con le caratteristiche della prestazione.
Infine, guardando sempre alla condizione dei minori, non è da sottovalutare il rischio che, per effetto della chiusura delle scuole e dell’attivazione di forme più o meno riuscite di didattica a distanza, tenda ad allargarsi in queste settimane la forbice tra “bambini di serie A e serie B”. Come messo in luce da Investing In Children e Alleanza per l’Infanzia, i più vulnerabili da questo punto di vista sono quei tanti bambini in povertà assoluta (quasi 1,3 milioni in Italia), spesso privi di un accesso alla rete a banda larga o mobile (indispensabile per non restare esclusi dalla didattica a distanza; Gavosto e Molina 2020), particolarmente bisognosi delle occasioni di socialità offerte dalla partecipazione alle attività scolastiche e i cui genitori sono perlopiù senza lavoro o impiegati con contratti di carattere precario, come tali poco tutelati anche dalle nuove disposizioni in materia di sostegno al reddito.
Che cosa accadrà dopo la crisi?
Come per il Covid-19, è difficile dire se – una volta passata l’emergenza – il nostro sistema di welfare avrà sviluppato “anticorpi istituzionali” duraturi, capaci di rafforzarlo e renderlo più resistente nel lungo periodo. La crisi sta certamente rendendo plasticamente visibili problemi del nostro sistema di protezione sociale noti ma latenti, sta risvegliando questioni “dormienti”, ponendo all’attenzione collettiva temi spesso marginali nel dibattito pubblico. Non tutti, però, con la stessa forza e non tutti, presumibilmente, con gli stessi effetti nel medio-lungo periodo.
Sul piano dell’agenda delle politiche sociali, il cambiamento più significativo sembra, almeno per ora, quello che si sta realizzando nel campo sanitario. Se da un lato è ovvio che sia così, dall’altro due elementi (Birkland 1998) suggeriscono che si tratterà probabilmente anche del cambiamento destinato a produrre gli effetti più duraturi sull’agenda. Il primo elemento ha a che fare con la presenza di una comunità di policy (fatta perlopiù di tecnici ed esperti), organizzata e indispensabile per superare l’emergenza, capace di “sfruttare” la crisi per modificare l’agenda, contestare lo status quo, argomentare in favore di un cambiamento (anche radicale) delle linee di politica pubblica seguite negli ultimi decenni: una comunità, cioè, capace di agire efficacemente come gruppo di advocacy. Ciò è a sua volta facilitato, ed è il secondo elemento, dalla natura del problema in questione (una chiara minaccia per la collettività), che consente e consentirà ai sostenitori del cambiamento di fare leva, anche nelle proprie strategie retoriche, su un immaginario – elementi visivi, simbolici, evidenze numeriche – molto potente. Emblematiche appaiono in proposito le parole del Presidente del Consiglio, che in un colloquio con il Corriere della Sera, ha definito “determinante” il parere della comunità scientifica, cui il Governo ha “ceduto il passo” nella convinzione che, in alcuni momenti della storia, possa essere questa comunità “a guidare le decisioni politiche”.
Queste due condizioni – una comunità di policy forte, in grado di agire come gruppo di advocacy a sostegno del cambiamento, e la natura grave e chiaramente percepibile del problema da risolvere – non sembrano presenti, almeno con la stessa intensità, negli altri settori di politiche sociali toccati, direttamente o indirettamente, dalla crisi in corso. I problemi relativi al lavoro e al sostegno alle famiglie, per quanto rilevanti, appaiono evidentemente meno urgenti di quelli strettamente sanitari e riguardano perlopiù fasce di popolazione (le persone anziane sole, i lavoratori atipici, i disoccupati, le donne, i minori, e così via) meno strutturate sia come gruppi di advocacy sia dal punto di vista delle comunità di policy di riferimento. Se si vuole agire perché la finestra di opportunità aperta dalla crisi anche sul fronte delle politiche sociali diverse da quelle sanitarie non si richiuda rapidamente (e questo vale soprattutto per l’assistenza agli anziani e per le misure di LTC) e che nella definizione dell’agenda e delle politiche abbiano voce anche gruppi più vulnerabili e meno organizzati di quelli ascoltati sino ad oggi, appare quindi più che mai cruciale il ruolo delle tante forme organizzate della società a difesa di questi gruppi. Spetterà quindi ai corpi intermedi e alle reti/alleanze che fanno advocacy – dall’Alleanza per l’Infanzia alla rete Investing In Children, da Save the Children all’Alleanza contro la Povertà in Italia, da ActionAid al Network non autosufficienza, a tanti altri soggetti attivamente impegnati nel primo e nel secondo welfare – provare a sviluppare strategie comunicative convincenti e avanzare proposte scientificamente robuste, per aiutare a trasformare le tante “condizioni” di difficoltà esacerbate dalla crisi in corso in veri e propri “problemi” (Kingdon 1993): così si potrà forse non solo scongiurare il rischio che la crisi del Coronavirus accresca le disuguaglianze, ma anche trasformare questa occasione drammatica nel grimaldello di un auspicabile policy change.
Federico Razetti
Riferimenti
Barca, F. e Gori, C. (2020), Una protezione sociale universale per affrontare subito l’emergenza. Proposte costruttive per il confronto in Parlamento e nel Paese, forumdisuguaglianzediversita.org, 16 marzo 2020
Birkland, Th. A. (1998), “Focusing Events, Mobilization, and Agenda Setting”, Journal of Public Policy, 18 (1), pp. 53-74.
Fosti, G. e Notarnicola, E. (2019) (a cura di), Il futuro del settore LTC. Prospettive dai servizi, dai gestori e dalle policy regionali. 2° Rapporto Osservatorio Long Term Care, Milano, Egea.
Gavosto, A. e Molina, S. (2020), Cosa funziona e cosa no nella scuola online, laVoce.info, 13 marzo 2020
Gori, C. (2019), Perché gli anziani non autosufficienti non interessano alla politica?, www.luoghidellacura.it, 23 gennaio 2019.
Istat (2019), La spesa dei Comuni per i servizi sociali. Anno 2016, Roma, Istat.
Kingdon, J. W. (1993), “How Do Issues Get on Public Policy Agendas”, in Wilson, W. J. (a cura di), Sociology and the Public Agenda, Newbury Park, Sage Publications.
Kingdon, J. W. (1995), Agenda, Alternatives and Public Policies, New York, Harper Collins.
Pavolini, E. e Jessoula, M. (2019), La sanità italiana: pomo della discordia o fiore all’occhiello?, www.altraeconomia.it, settembre 2019.
Pesaresi, F. (2018), 20 anni di proposte per la non autosufficienza. Questa legislatura sarà quella buona?, welforum.it, 18 settembre 2018.
Saraceno, C. (2020), Cura Italia: bene ma fino a un certo punto, laVoce.info, 18 marzo 2020
Pubblicato su Percorsi di Secondo Welfare ( CLICCA QUI )