Contrariamente alle speranze di quelli che spargevano voci sulle sue possibili dimissioni, Papa Francesco è morto combattendo. Come ci si poteva aspettare da un uomo come lui che, fermo nelle sue convinzioni in difesa del bene comune, della giustizia e degli ultimi della Terra, non aveva paura di nulla e di nessuno.

E’ infatti difficile non vedere il suo ultimo bagno di folla – una sortita pubblica che i medici gli avevano sconsigliata – come un gesto volontario. Un gesto compiuto nella piena consapevolezza di essere in punto di morte; e compiuto per offrire un dono estremo al popolo dei fedeli e un lascito all’umanità tutta intera. A quegli “altri” cui, come ha detto il Dalai Lama, egli si è completamente dedicato in tutta la sua vita. E cui ha lasciato – nell’ultimo discorso loro rivolto, che non ha però avuto la forza fisica di leggere personalmente –  l’insegnamento a perseguire sempre, nel loro impegno politico-sociale, “la libertà di pensiero e di espressione”. Un insegnamento che lascerebbe senza parole chi non sa vedere quanto il Cristianesimo sia l’essenza stessa della civiltà occidentale, anche quando questa si esprime attraverso i pensatori “rivoluzionari” del ‘700 e dell’800. Un gesto, quest’ultimo di ben consapevole sacrificio, che conferma e completa l’operato di una vita. E che, a sua volta, spiega pienamente perché mai, nel tempi recenti, la sua parola – la parola del Papa – abbia avuto una eco così potente quale mai quella dei suoi predecessori. Ed un esito così significativo anche al di fuori dell’ambiente dei Cattolici; nella società globale, multiculturale e multi religiosa del ventunesimo secolo.

In un mondo in cui la potenza delle armi ha raggiunto vertici impensabili, tanto da far temere che essa sfugga al controllo degli esseri umani, egli ha sempre predicato contro la guerra, ed ha concretamente operato per favorire il dialogo e a comprensione reciproca, a volte ancor più che per far apporre firme di politici riluttanti e poco convinti in calce ad un Trattato di pace. E da lui  sembrava promanare il convincimento che, per la debolezza della razza umana, è pressoché impossibile evitare i conflitti. Ma che non per questo gli inevitabili scontri, le rivalità, persino gli odii, debbano per forza tramutarsi sempre in una guerra.

Tutto ciò non per indifferenza verso coloro che soffrono; perché al contrario egli ha dato infinite prove di essere sempre personalmente ferito da un fenomeno – la globalizzazione dell’indifferenza – atrocemente diffuso nelle società di questa prima parte del nuovo secolo. E ciò nonostante che – a differenza di quelle del passato – le attuali generazioni adulte dispongano di tutti i possibili strumenti per essere a conoscenza delle disgrazie altrui, anche di popoli dispersi, lontanissimi e che parlano lingue incomprensibili.

Papa Francesco ha perciò sempre dato segno di un’acuta consapevolezza del fatto che il contrario della guerra e della violenza non possa essere una pace che accetti l’ingiustizia. La consapevolezza di come il contrario della guerra non sia la semplice assenza di contrapposizioni violente, tra esseri umani o tra strumenti di morte da essi creati. La consapevolezza di come il contrario della guerra siano il dialogo e il negoziato, ispirati dal sentimento cristiano della carità, e che siano volti al perseguimento della comprensione reciproca.

E’ facile immaginare, naturalmente, quanto sia colossale – quando si parte da un simile approccio – il compito di essere il più importante leader spirituale del mondo, non solo nelle quadro delle relazioni tra i popoli, ma all’interno della stessa Chiesa. E non è, infatti, un caso che egli abbia avuto, ed abbia oggi più che mai, dei nemici ideologici all’interno del mondo cattolico, o tra coloro che – talora inconsapevoli di stare bestemmiando – si proclamano tali. Uno dei quali, peraltro, e dei più noti, è nessun altro che il Vice-Presidente degli Stati Uniti, l’ultima persona che egli ha generosamente ricevuto la sera prima di lasciarci.

Gli storici futuri avranno un compito più facile dei suoi contemporanei nel valutare il bene da lui fatto alla Chiesa e alla società.

Allo stato, chi ha osato un giudizio ha potuto solo scrivere – come nel caso del teologo inglese Brian Casey, dell’Università di Durham – che “Pur rimanendo un conservatore sociale sotto l’umile immagine di parroco, Papa Francesco ha rotto gli schemi, dimostrando una maggiore propensione al rischio rispetto ai suoi predecessori. Ha visitato più di sessanta Paesi, tra cui alcuni tra i più poveri del mondo, così come altri che riflettevano il suo impegno per il dialogo interreligioso. Ha offerto una voce coerente di compassione e un quadro etico per affrontare le questioni della povertà, del cambiamento climatico e dell’emarginazione sociale”. Altri, come l’attivista paraguayano Simòn Cazal,  presidente dell’organizzazione LGBT Somosgay, hanno scritto che egli era “un leader molto intelligente che comprende i limiti, le complessità e le sfide che comporta muoversi in un’istituzione antica come la Chiesa cattolica, e le sue nomine riflettevano questa consapevolezza. Francesco era un uomo dalla fede risoluta e incrollabile. Era profondamente consapevole della propria mortalità e del proprio retaggio, mentre il mondo entrava in un’era di crisi climatica e crescente autoritarismo, privo di una cornice intellettuale che gli permettesse di superare questi pericoli e di proiettarsi verso un futuro più sano e progressista”.

Chi scrive può solo pensare, ed osare dire di trovarsi di fronte all’eredità di un gigante. E che tocca a tutti noi perpetuarne il messaggio Senza dimenticare – tuttavia – che l’idea stessa che da lui promanava dell’essere cristiano pone a ciascuno di noi l’interrogativo se abbia o meno le spalle abbastanza larghe per portare la dignità del battesimo.

Giuseppe Sacco

About Author