La Repubblica di Cina, a Taiwan, è stato il primo paese asiatico a legalizzare il matrimonio tra persone dello stesso sesso, diventando così una specie di pioniere nella sua regione.

Presentato, dal 2019 ad oggi, dai media dall’attuale governo dell’isola come una monumentale vittoria della modernità, il same-sex marriage ha fatto sì che attualmente nella Repubblica di Cina, cioè nell’isola che i Portoghesi avevano chiamato Formosa, vivano più di 5.800 coppie omosessuali registrate all’anagrafe, e che l’opinione pubblica – tradizionalmente assai poco favorevole – si sia spostata decisamente verso un maggiore sostegno e tolleranza per i diritti LGBTQ. Tuttavia, una vera e piena uguaglianza per le coppie dello stesso sesso non è stata ancora raggiunta e il progresso continuo dipenderà dal sostegno pubblico sostenuto e dalle future vittorie elettorali del partito attualmente al potere.

Da quando, nel 2017, la Corte costituzionale ha stabilito che le unioni tra persone dello stesso sesso sono un diritto fondamentale, il same sex marriage è diventato infatti una questione politica centrale nella vita politica dell’isola, ed ha dovuto superare non pochi ostacoli e opposizioni. Ma nel complesso la sua introduzione tra i diritti dei cittadini viene considerato un colossale successo per l’attuale Presidentessa Tsai Ing-wen e per il suo Democratic Progressive Party. Di converso, si tratta di una storica sconfitta per il Kuomintang. E se questo è stato a lungo guidato da Chiang Kai-shek, prima della vittoria di Mao nella guerra civile, e ancora negli anni successivi, dopo il ripiegamento del suo esercito nell’isola, sotto la protezione americana, esso è anche lo storico partito nazionalista cinese fondato da Sun Yat-Sen, personalità riconosciuta su entrambe le sponde dello Stretto di Taiwan come il “padre della patria” della Cina moderna.

Same sex marriage e morale asiatica

Nella Cina di Taipei, molte persone godono oggi dei diritti e benefici precedentemente considerate ovvie solo per le coppie eterosessuali. E ciò, in un immenso continente, quello asiatico, dove nessun altro paese, neanche i “paradisi” del turismo sessuale e dei “lady boys”, come la Thailandia, accettano l’idea che si possa essere legalmente sposate con partner dello stesso sesso.

E’ questo il segno più visibile di un radicale processo di cambiamento che investe in pieno la società civile dell’isola; una misura che, presentata come “un grande passo verso la vera eguaglianza”. Ma che al tempo stesso ferisce le fondamenta stesse e il vero punto di forza del mondo sinico: la famiglia tradizionale; l’arma segreta che ha permesso alla Repubblica Popolare Cinese di diventare in quarant’anni una potenza economica, e al regime del quale XI Jinping è oggi la massima espressione di mantenersi al potere nel quarantennio successivo al crollo del sistema sovietico.

E il governo di Taipei la ferisce deliberatamente, la tradizione cinese della forza del legame familiare. Perché Taiwan, nell’enfatizzare i diritti dei gay e dei trans persegue in realtà un fine politico assai più importante, quello della sopravvivenza. E per farlo gioca una carta “culturale”, nel quadro di una contrapposizione con Pechino che sembra farsi sempre più pericolosa, e ormai sul punto di scivolare in una guerra guerreggiata, in cui verrebbero coinvolti tutti i principali paesi, compresa l’Italia.

Tanto è vero che ancora pochi giorni fa si è potuto leggere, sul Corriere della Sera, un editoriale di Paolo Mieli in cui si faceva appello all’Europa perché si prepari ad uno scontro militare con il nuovo “pericolo giallo”. Per non parlare del libro “Fermare Pechino”, il cui autore altri non è se non il corrispondente di “Repubblica” dagli Stati Uniti. Una persona che ha pensato bene di cogliere l’occasione per diventare cittadino americano. La recente riasserzione, dando loro la massima visibilità possibile, del diritto al same sex marriagee delle libertà democratiche rientra in questo quadro.

Il vento di una possibile guerra tra America e Cina è parso per un momento soffiare più forte e pericoloso la scorsa settimana. E questo per aver Biden espresso esplicitamente quello che i diplomatici hanno sempre detto in maniera ambigua: che in caso di attacco di Pechino a Taipei, gli Stati Uniti sarebbero intervenuti a difendere l’isola.

Non è bastato che, subito dopo, un comunicato della Casa Bianca si sia premurato di raffreddare la tensione, precisando che le parole del Presidente non aggiungono nessun nuovo impegno a quelli già noti. Pechino infatti ha reagito in maniera assai aspra, e non si e curato di appesantire il clima, già turbato dal sorvolo dell’isola da parte di oltre 150 arei dell’APL, l’Esercito Popolare di Liberazione.

E’ stata questa una reazione dovuta a ragioni di politica interna alla nuova grande potenza comunista, che è meno monolitica di quanto non si dica dall’esterno; ma è stata una reazione comunque preoccupante. Perché Pechino non può non sapere che – se dispone di un certo spazio per affermare e rafforzare militarmente la propria presenza nel Mar Cinese meridionale, dove in alcuni dei casi in contestazione le sue pretese sono armate di buone ragioni – attaccare Taiwan è sarebbe un errore. Anzi, è l’errore che non deve commettere. Se non vuole una guerra con l’America; ed una guerra tanto più svantaggiosa in quanto il suo teatro – salvo escalationnon convenzionale – sarebbe non i grandi spazi del Pacifico, ma un mare chiuso, immediatamente antistante i suoi porti.

Taipei gioca la carta culturale

Anche Taiwan, ovviamente, avrebbe tutto da perdere in una guerra in cui la coinvolgerebbe la volontà dell’America e dei suoi alleati di garantirne la” protezione”. E, dal canto suo, sa di non avere i mezzi militari per difendersi dalla gigantesca gemella del continente. Il governo di Taipei cerca perciò di difendersi come può, e tenta un’altra strategia.

Anche per questo, la piccola Cina di Taipei, si è data – sul piano istituzionale – un sistema multipartitico pienamente funzionante, cui si aggiungono aspetti di democrazia diretta, in particolare un uso sistematico del referendum che va anche al di là del modello svizzero. E ciò proprio mentre a Pechino sembra affermarsi – o almeno così dicono gli “esperti” occidentali – una tendenza opposta, volta ad accrescere e forse a rendere permanente il potere personale di Xi Jinping.

Tra le due Cine si accrescerebbe dunque la diversità istituzionale e civile. Ma nulla, né le strutture del sistema politico, né la rete delle alleanze è più contraddittorio delle politiche “culturali”. Con Taipei che si trasforma a ritmi forzati secondo il modello occidentale del ventunesimo secolo, e Pechino che accentua ogni giorno di più le “caratteristiche cinesi” del proprio “socialismo”.

Così, mentre la gigantesca Cina comunista, con una misura che in verità troverebbe non pochi consensi in molte famiglie europee, limita drasticamente il numero di ore che i bambini possono dedicare ai videogiochi, la piccola Cina occidentalizzata compie tutti i passi possibili per assomigliare all’America. Anche nei suoi aspetti più discutibili; anzi, proprio nei suoi aspetti più discutibili.

Cerca, come dicevamo, di difendersi come può; rendendosi, sia sotto il profilo del sistema politico che sotto quello dei costumi, il più possibile indigesta – nella speranza di scoraggiarne, forse, l’appetito –, pericolosamente contagiosa e forse anche ripugnante per il colosso che non ha sinora mai smesso di dichiarare la propria volontà di inghiottirla. E il riconoscimento legale, così come la grande visibilità dati al same-sex marriage rientrano, insieme alle caratteristiche che il paese si è dato nel campo delle strutture politiche. in questa strategia.

Giuseppe Sacco 

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