Il 23 gennaio 1961 il “Financial Times” pubblicava la seguente notizia: “Il nostro giornale ha assegnato il suo Oscar per il 1960 al Dr. Donato Menichella come il più abile Governatore di Banca Centrale dell’anno. Grazie in larga misura al modo abile e realistico con cui egli ha gestito l’opera di sviluppo e di attuazione della politica monetaria italiana nel decennio successivo al 1950, è stato possibile all’Italia di fare della propria moneta una delle più solide monete del mondo e, nello stesso tempo, realizzare un sensazionale sviluppo economico”. Questo Oscar alla persona seguiva quello assegnato nel 1959 alla lira.

Il 31 maggio 1961 Guido Carli, successore di Menichella, leggeva la Relazione della Banca d’Italia relativa al 1960, ultimo anno di solido e ordinato sviluppo della nostra economia. Ne riporto la parte conclusiva: “La politica di liberalizzazione degli scambi, affermatasi nel secondo dopoguerra, è stata sostenuta e promossa con grande convinzione da una personalità insigne, Luigi Einaudi, la cui ferma, costante e instancabile opera a favore della libertà degli scambi trova testimonianza esemplare in una imponente mole di scritti. Questi scritti riflettono l’alta concezione morale di una società ordinata da «leggi chiare, sicure e rigorose entro la cornice delle quali l’uomo liberamente possa muoversi e cercare la via della sua elevazione spirituale e materiale». (…) Anche per il mio
illustre predecessore, Donato Menichella, le premesse fondamentali dello sviluppo economico dell’Italia si trovano nell’ultimo decennio nella coraggiosa politica di liberalizzazione degli scambi, tale da spingere il nostro apparato produttivo – attraverso la pressione competitiva esterna – sulla via di una più elevata produttività. Di questa politica anche Menichella è stato realizzatore sagace, nel convincimento – tante volte documentato nelle sue esposizioni in questa sede – che essa soltanto poteva farci sperare in una genuina rinascita economica.

Oggi possiamo constatare che se il reddito reale per abitante si è triplicato dal 1861 al 1960, più della metà dell’incremento è stata ottenuta nel breve periodo compreso tra il 1951 e il 1960. Sono gli anni in cui l’Italia ha assunto la fisionomia di centro manifatturiero, stabilmente inserito nelle grandi correnti degli scambi
internazionali”.

Fu davvero un “miracolo”, perché conseguito ripartendo nel 1945 da zero e con lo scarso supporto dei prestiti bancari e del mercato dei capitali, tanto che la Banca d’Italia iniziò a pubblicare le statistiche sul risparmio delle famiglie solo a partire dal 1964. Sino ad allora il risparmio finanziario del Paese era indicato sotto la voce “privati e società”, senza specificare l’importo formato dalle famiglie e il risparmio creato dalle imprese. C’era quasi il “pudore” di mostrare la differenza tra il primo (scarso) e il secondo (abbondante).

Tuttavia al “miracolo economico” degli anni 50 contribuirono non solo le imprese, grazie alla loro produttività e al reinvestimento dei profitti non distribuiti, ma anche le famiglie. Infatti, oltre al gran lavoro da loro fornito, molte famiglie diventarono le dirette finanziatrici di una parte dello sviluppo edilizio (i mutui bancari non erano ancora diffusi) e dello sviluppo delle piccole imprese. I prestiti tra parenti contribuirono al “miracolo”.

In famiglia si trovava quella fiducia che non si poteva ancora ricevere da un sistema bancario “in fasce” e da un mercato dei capitali con scarsi capitali, gran parte dei quali erano al servizio delle nascenti grandi imprese private e pubbliche. Quel “miracolo” fu dunque “corale”, vi partecipò tutto il Paese, sostenuto dalla grande capacità di
lavoro e di risparmio di tanti, guidati da leader politici e da banchieri centrali (prima Einaudi e poi Menichella) dotati di basi morali e culturali, che portavano a “leggi chiare, sicure e rigorose” e verso l’integrazione dell’Italia “nelle grandi correnti degli scambi internazionali”.

Integrazione che l’opposizione socialcomunista non voleva, a meno che non fosse orientata a Oriente, per molti
decenni successivi patria del sottosviluppo economico-sociale e della dittatura comunista. Se il 18 aprile 1948 avesse vinto il Fronte Popolare, l’Italia sarebbe finita in quell’orbita e non avremmo più festeggiato il 25 aprile… … … Dalla padella “nera” saremmo finiti nella brace “rossa”.

In una recente intervista il Prof. Giuseppe De Rita ha detto: “Serve uno scatto come nel dopoguerra. Tutto intorno a noi era in macerie, però ce l’abbiamo fatta. Siamo diventati la quinta potenza economica del mondo. Mi hanno sempre dato dell’ottimista ottuso. È stata la mia forza. Resto ottimista anche in questi giorni. Questo Paese l’ho visto crescere e sono cresciuto con lui: è un Paese straordinario”.

Nel dopoguerra lo scatto ci fu, ma fu subito sostenuto dalle buone “radici” di persone lungimiranti, sia al vertice che alla base della società. L’albero è cresciuto, ma nel corso del tempo non è stato curato e difeso come avrebbero fatto coloro che lo avevano piantato. Ma l’albero ha ancora le buone “radici” dell’intelligenza di tanti imprenditori e lavoratori, che ben conoscono l’importanza delle “leggi chiare, sicure e rigorose” (di cui da lungo tempo sentono il bisogno) e della stabile integrazione dell’Italia “nelle grandi correnti degli scambi internazionali”, che nessun virus sarà mai capace di abbattere, essendo questa integrazione l’ossigeno per la nostra vita economico-sociale.

Chi pensa che sia auspicabile una Italia fuori dall’Europa, vive fuori dal mondo. Il vero nemico degli italiani non è l’Europa, ma la nostra cattiva e ostile burocrazia “sedimentata” nel corso di tanti (troppi) governi di diverso colore politico, come ha giustamente sostenuto il Prof. Marco Vitale nella sua profonda analisi (con molte proposte per il “risorgimento” dell’Italia) pubblicata dal blog culturale ODISSEA ( CLICCA QUI ).

Dobbiamo ritornare alle condizioni “fondamentali” (“back to basics”), cioè a quei valori senza dei quali non si può creare vero e diffuso valore. Tanti italiani eccellenti lo dimostrano ogni giorno. Il mondo politico non può continuare a ignorarli o, peggio, a contrastarli. La “lezione” del Covid 19 ci deve dare quello “scatto” auspicato da De Rita e quel “risorgimento” in cui Vitale ha fiducia, perché lo ritiene possibile. È tempo per il mondo politico di SERVIRE L’ITALIA seriamente.

Dal male del virus può finalmente emergere il bene della stretta alleanza fra capitale e lavoro che Leone XIII
riteneva come la “cosa nuova”, che poteva eliminare le tante “cose vecchie” e non funzionanti in cui credeva da sempre il mondo. La Dottrina Sociale della Chiesa e l’obiettivo sturziano dei “liberi e forti” non sono affatto un’utopia. Utopia è che possa funzionare tutto ciò che è contrario a questa visione solidale e pacifica, perché unificante.

Giovanni Palladino

Pubblicato su Servire l’Italia

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