La cosiddetta “diaspora” dei cattolici italiani in politica e la connessa loro divaricazione tra “quelli della morale” e “quelli del sociale”, si superano dando corso ad un partito programmatico che riprenda la grande lezione di don Sturzo sull’analisi sociologica dei fenomeni correnti senza lasciarsi insterilire in una vuota logica di schieramento. In questo senso, lo abbiamo detto più volte, la novità che s’intende rappresentare non può limitarsi alla proclamazione della pur necessaria dichiarazione di voler essere Centro. Questa dichiarazione dev’essere arricchita dalla capacità di lavorare per la nascita di un baricentro costituito da un’area più larga di partecipanti e di consensi, perché davvero in grado di lavorare attorno alla “centralità” delle questioni da cui dipende il futuro dell’Italia e degli italiani. Solo un baricentro inclusivo, ma innovativo, può assicurare l’avvio di quella trasformazione di cui l’Italia ha oggi bisogno.

E’ del Natale del 1905 il primo passo di don Luigi Sturzo verso l’impegno dei cattolici popolari e democratici fondato sulla creazione di un “partito nazionale di cattolici”. Risale ad allora l’intervento del prete siciliano dal titolo ” I problemi della vita nazionale dei cattolici italiani”, passato alla storia come il Discorso di Caltagirone. Si tratta della pietra angolare di quel progetto destinato a vedere la luce 14 anni dopo, con la nascita del Partito Popolare italiano, e a ripartire, a conferma della sua forza ideale e progettuale, con la Democrazia cristiana all’indomani della chiusura della parentesi fascista e della fine della guerra.

Riandare ancora una volta a Sturzo non significa per noi limitarci ad agitare un’icona e a pretendere di esprime in esclusiva la  rappresentanza del suo pensiero e dell’impegno storico suo e del Partito popolare, da lui fondato. Esperienze da inserirsi, ovviamente,  in un contesto storico tanto lontano, non solo per una evidente questione temporale, ma soprattutto per il sedimentarsi di tanti cambiamenti sociali, economici, istituzionali e politici nel frattempo intervenuti.

Non si tratta, dunque, di riproporre sic et simpliciter né quella esperienza né  quella successiva concretizzatasi con la Democrazia cristiana. E’ certo però che guardiamo a ciò che venne indicato da don Luigi, e ci appare oggi largamente riproponibile, come sostanza ideale e come metodo politico, all’interno di una consolidata proposta che ha, tuttora, una sua ragion d’essere in Europa e in Italia. Essa costituisce oggi come allora, infatti, il presupposto per un passaggio verso la modernità politica dei cattolici quale evoluzione applicativa dell’ipotesi. che fu già del Rosmini, di uno Stato democratico frutto della coniugazione di una visione liberale in grado di recepire  consolidati valori morali e politici condivisibili ampiamente da parte di moltissimi cittadini italiani e, riferita sempre al Rosmini, della visione di una società plurale  che ha e deve continuare ad avere una propria libertà di animazione, favorita e non vincolata dallo Stato.

Sono questi gli elementi che fanno valere tuttora, in un mutato contesto internazionale, istituzionale e socio economico, molto dell’impostazione del modello di partito popolare e programmatico da Sturzo messo in essere.

Di nuovo, anche i cattolici popolari e democratici, così come i laici che hanno di riferimento altri filoni di pensiero e altre idealità, si trovano dinanzi all’inevitabile riproporsi di questioni insite nel carattere pubblico delle cose dell’Italia e degli italiani. Tornano a ripresentarsi più argomenti, storicamente irrisolti o, almeno, non risolti compiutamente. Senza voler scomodare la vichiana “teoria dei corsi e dei ricorsi storici”, possiamo ben dire di essere nuovamente di fronte alla riproposizione di temi cruciali quali quelli determinati da ciò che possiamo definire una crisi istituzionale e politica, l’aggravarsi delle disuguaglianze vecchie e nuove d’ordine socio-economico e geografico, lo smarrimento culturale e formativo in cui versano le nuove generazioni, le criticità e carenze di cui soffrono la famiglia, i gruppi, le entità territoriali locali e le altre espressioni della incontenibile tendenza aggregativa delle persone in cui la Persona intende crescere naturalmente e liberamente.

Nel pensiero popolare e cristiano democratico, dunque, nel suo alternativo modo di porsi sul piano istituzionale e politico, per quel suo insistere nel mettere al centro la Persona e lo spirito comunitario, animato com’è da una  preminente sollecitudine verso il Bene comune, l’intero Paese può attingere idealità e una specifica determinazione politica diretta non ad interessi di parte, bensì a quelli di tutti gli italiani.

La complessità dei fenomeni in corso segna un nuovo passaggio d’epoca. Emerge una rinnovata questione antropologica, causa ed effetto di trasformazioni socio- economiche, culturali e politiche che stanno permeando la società occidentale senza lasciare, ovviamente, il nostro Paese immune. E’ la netta vittoria dell’ideologia dell’individualismo, finora in grado di mettere in ombra, persino obnubilare, tutte le altre visioni ideologiche del ‘900, a marcare l’allentamento delle tensioni solidali, sul piano privato, e un collegato deperimento del principio della sussidiarietà, su quello pubblico. Così, l’eccesso d’individualismo di cui siamo tutti permeati, e la conseguente destrutturazione sociale stanno mettendo in discussione quegli equilibri necessari alla tenuta del tessuto pubblico i quali, se definitivamente consunti, espongono a seri pericoli, più o meno consapevolmente, più o meno volontariamente, persino quell’ideale di libertà da cui pure l’individualismo trae forma e sostanza.

In questo senso, potremmo spingerci a ragionare di “un corso e di un ricorso” peculiarmente italiano e, al tempo stesso, della necessità di dare via alla rigenerazione di quei filoni consolidati di pensiero che non siano il frutto di un capriccio della storia o della volubilità degli uomini come quelli che, invece, abbiamo visto inanellare nel corso degli ultimi decenni. Essi costituiscono la sedimentazione di sentimenti, aspirazioni e letture specifiche dell’andare delle cose del mondo che, per quanto tenute sotto tono dalla qualità dell’attuale quadro politico, riemergono forgiati dal rincorrersi, dal sovrapporsi e dal riproporsi, sia pure sotto mutate vesti, all’interno di un’evoluzione che costringe a scegliere tra ciò che è utile e positivo e quanto, invece, è mera conservazione a favore di pochi e a danno di molti altri e, dunque, costituiscono un oggettivo ostacolo al raggiungimento del cosiddetto Bene comune.

La contingenza del suo periodo, ma sembra valere anche oggi per quella del nostro, spinse Luigi Sturzo  a prefigurare un partito in grado di superare assieme sia il modello di natura meramente elettorale e di opinione, qual era quello dei liberali, ma come sono oggi tutti i partiti italiani, sia  quello dell’organizzazione di classe proprio del socialismo.

L’idea di partito parte dal riconoscimento dell’esistenza delle condizioni che sollecitano a una scelta di fronte a un processo di trasformazione in atto. Si tratta di una decisione collettiva da parte di alcuni che supera e sublima le singole opzioni individuali. Sono evidenti le tante diversità dei giorni nostri rispetto a ciò con cui Sturzo dovette misurarsi, a partire dell’ancora allora esistente “questione romana”. Sturzo, però, già affronta un qualcosa che si ripresenta oggi dopo oltre due decadi e mezzo di esistenza di quella che chiamiamo “diaspora politica” dei cattolici italiani.

Egli distingueva tra i disponibili ad un’intesa con il mondo conservatore liberale, magari investendo su di un’opzione clerico – moderata, e quanti intendevano più pienamente interpretare sul piano sociale il forte messaggio innovativo portato dalla Rerum Novarum promulgata da Leone XIII sul finire del secolo precedente. Così si capisce perché don Luigi Sturzo, in questo intervento pubblico del Natale 1905, può ben dire di assistere ad ” una lotta di due tendenze diverse e anche opposte nel campo delle idee e della organizzazione”. Egli indica la propria scelta escludendo che i cattolici italiani si propongano “come una congregazione” o ” come un partito clericale”, perché sono “rappresentanti di una tendenza popolare nazionale nello sviluppo del viver civile, che vuolsi impregnato, animato da quei principi morali e sociali che derivano dalla civiltà cristiana come informatrice perenne e dinamica della coscienza privata e pubblica”. Per poi aggiungere: “E’ chiaro che io stimo monca, inopportuna, contrastante ai fatti, rimorchiante la chiesa al carro dei liberali, la posizione di un partito cattolico conservatore; e che io credo necessario un contenuto democratico del programma dei cattolici nella formazione di un partito nazionale”.

Ciò implica la necessità di andare “da soli”, come già constatava Sturzo, e dunque, di dare vita ad un partito diverso, ma consapevoli della inevitabile opportunità di confrontarsi con gli altri in una logica pluralista e democratica. ” Specificamente diversi dai liberali e dai socialisti, liberi nelle mosse, ora a destra e ora a manca, con un programma consono, iniziale, concreto e basato sopra elementi di vita democratica, così ci conviene entrare nella vita politica. Non la monarchia, non il conservatorismo, non il socialismo riformista ci potranno attirare nella loro orbita: noi saremo sempre, e necessariamente, democratici e cattolici”, diceva Sturzo da Caltagirone.

Ai giorni nostri, noi parliamo di autonomia e del sentirci e voler essere alternativi all’intero quadro politico esistente.

Giancarlo Infante

Per il testo integrale del Discorso di Caltagirone ( CLICCA QUI ) così come pubblicato dall’Istituto de Gasperi dell’Emilia e Romagna.

 

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