Il nazionalismo è una malattia del corpo sociale. E chi lo propone come medicina somministra veleno. Non a caso spesso si accende quando una nazione cerca di riprendersi da sconfitta vissuta come un affronto umiliante, che ne mutila l’identità e l’autostima. E si accompagna, in genere, all’instaurazione di un regime autoritario ed illiberale, che, paradossalmente, usa l’esaltazione del sentimento nazionale come un narcotico finalizzato a manipolare la coscienza popolare.

Bisogna che gli italiani si rendano conto che il nazionalismo apre ad una prospettiva destinata a collocare l’Italia su un binario morto. Anzi la sospinge, con tutte le conseguenze del caso, ad uno scontro frontale con la storia che muove in tutt’altra direzione. Allude di fatto, al di là delle dichiarazioni di rito, ad un atteggiamento scettico e scostante nei confronti dell’ Europa. Alla quale, viceversa, l’Italia deve guardare tanto più convintamente, quanto più conosce quale sia il patrimonio civile e culturale che reca, da millenni, ad una identità europea, che senza il cattolicesimo romano ed il Rinascimento non esisterebbe.

Quando ci si inoltra in un tempo nuovo, come oggi avviene su più versanti, si rischia di smarrirsi fin dal primo passo, se lo si mette in fallo e di avvitarsi in un percorso che si fa labirintico e torna incessantemente su sé stesso, senza via d’uscita. Come si può non vedere il vicolo cieco in cui ci stiamo infilando? E l’abissale contraddizione tra un mondo che si apre in un ventaglio di relazioni e di reciproche influenze sempre più marcate, perfino a dispetto della guerra, ed una postura che evoca un arroccamento entro i propri confini fisici, storici, culturali, mentali?

Che la cultura politica della destra sia rozza ed approssimativa lo dimostra il fatto che innalzi la bandiera del nazionalismo – e della sua variante sovranista – come totem identitario di un’alleanza del tutto avulsa dal contesto storico che viviamo. Peraltro, quando si dice “nazionalismo” bisogna sapere di cosa esattamente si tratti. Chiarendo che quest’ ultimo nulla ha a che vedere con il legittimo orgoglio delle proprie origini che ogni popolo deve coltivare, con il sentimento di appartenenza ad uno stesso territorio fisico ed ideale, con la consapevolezza dei valori che ciascuno assorbe ed incarna e vive nel solco della tradizione storica della propria gente.

La differenza tra questi due atteggiamenti di fondo non è, come si potrebbe ritenere a prima vista, quantitativa, ma qualitativa ed essenziale. La cifra del nazionalismo è nel segno dell’ appropriazione esclusiva ed autoreferenziale.
Sostanzialmente rappresenta una forma di narcisismo collettivo, con tutto ciò che di patologico questo implica.
L’ incantamento del narcisista che contempla sé stesso e non riesce a staccarsi dalla propria immagine idealizzata tradisce una debolezza interiore, una fragilità endogena cui non è possibile porre rimedio. Cosicché altro non resta se non chiudersi in un bozzolo, fabbricare attorno a sé una corazza di latta e crogiolarsi in un mondo solipsistico e soffocante.

Al contrario, la coscienza dei valori che la propria comunità di appartenenza geopolitica, storica e culturale rappresenta nel concerto delle nazioni, si offre in quell’atteggiamento di dono e di reciproca fecondazione tra Paesi diversi, che ne nobilita ciascuno e li arricchisce tutti. Il nazionalismo, in sostanza, è un’ubriacatura che oscura il senno dei popoli e ne tradisce l’identità profonda. Segnala una fuga malata dal presente, la paura di affrontare un domani che appare minaccioso nella misura in cui fanno difetto le categorie culturali necessario a leggerne gli sviluppi e conseguentemente spinge illusoriamente a ricercare nel passato e nell’identico motivi di rassicurazione.

Domenico Galbiati

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