Viviamo un momento straordinariamente difficile che  rischia di suggerire scoraggiamento e rassegnazione ed ai credenti, in modo particolare,  spetta il compito di arrestare questa deriva ed invertirne il corso. Siamo autorizzati – come ci suggerisce  Mons. Delpini, Arcivescovo di M Milano – a pensare ed insieme sperare, anziché lasciarci andar giù per la china di una sfiducia distruttiva.

Papa Giovanni, l’11 ottobre 1962, introducendo i lavori del Concilio, disse queste parole che per noi ancora oggi risuonano come un monito e, nel contempo, come una rassicurazione: “….ci vengono riferite le voci di alcuni che, sebbene accesi di zelo per la religione, valutano però i fatti senza sufficiente obiettività, né prudente giudizio. Nelle attuali condizioni della società umana essi non sono capaci di vedere altro che rovine e guai…A Noi sembra di dover risolutamente dissentire da codesti profeti di sventura che annunciano sempre il peggio, quasi incombesse la fine del mondo. Nello stato presente degli eventi umani, nel quale l’umanità sembra entrare in un nuovo ordine di cose, sono piuttosto da vedere i misteriosi piani della Divina Provvidenza che si realizzano in tempi successivi, attraverso l’opera degli uomini e spesso al di là delle loro aspettative…”.

Parole che vengono ormai da lontano, eppure sembrano dette fin da allora e profeticamente per noi, talmente rispondono ad una domanda che per noi è più pervasiva ed impellente di quanto non fosse sessant’anni fa o poco meno.

Parole che, appunto, ci guidano e ci rassicurano in questo fase in cui si avvia il cammino di INSIEME. E che valgono altrettanto per quella che chiamo l’ ”incompiuta”. L’ “incompiuta” è la rete che è necessario creare attorno ad un partito.  O meglio – in spirito di “collegialità” – l’alleanza o almeno una forma strutturata di collaborazione tra diversi soggetti che operano nel contesto civile e facciano riferimento alla medesima ispirazione culturale.

In virtù della quale intendano offrire – ciascuno secondo la propria peculiare attitudine – un concorso alla costruzione di forme di convivenza che edifichino la “polis” di questo nostro tempo terribile ed affascinante, per certi versi apparentemente minaccioso ed oscuro, eppure ricco di provocazioni e di spunti che lasciano intuire l’alba di un nuovo giorno.

Il partito è uno strumento necessario, nella misura in cui è diretto ad offrire uno sbocco politico ed istituzionale anche a quella vastissima gamma di pensiero e di azione che viene sviluppata da movimenti ed associazioni che operano sul piano culturale o formativo, di ordine sociale o di volontariato.

Non a caso, ad esempio, Carlo Donat Cattin considerava come il partito fosse strumento di riscatto delle classi popolari. Si potrebbe dire la voce che dà voce a chi, di per sé, non ha voce o la vede soverchiata dal rumore del più forte. Eppure non basta uno “statuto” innovativo e molto ben fatto che ne definisca l’anima e la struttura. Un partito, oggi, nel quadro plurale e complesso della società globale, deve assumere una fisionomia operativa fin qui inedita. Deve promuovere – va detto subito: rifiutando ogni suggestione da vecchio “collateralismo” – una “rete”, cioè una struttura in cui  il centro è, nel contempo, ovunque e da nessuna parte e, pertanto, per definizione, aperta e paritaria.

Una rete può essere percorsa partendo da ciascun nodo per raggiungerne qualunque altro senza soluzione di continuità e, dunque, in una fase storica connotata dalla ricchezza di uno straordinario pluralismo, funziona meglio che non una struttura “piramidale”. Purché ci sia una regia in grado di comporre in un disegno dotato di senso la pluralità di apporti che giungono da ogni dove. In un tale insieme, dove sta e con quale ruolo la politica e le forze organizzate, i partiti, che si fanno carico della sua funzione di sintesi?

Se dalla rete passiamo alla metafora del tappeto – che poi è una rete particolarmente stipata e complessa – la politica fa la parte di chi, annodando pazientemente filo su filo, tiene insieme ordito e trama cosicché il tappeto mostri un disegno ordinato ed accattivante che pur emerge da un groviglio indecifrabile ed apparentemente confuso di nodi intrecciati che appaiono sulla superficie retrostante. In effetti, la politica è fatta per tutti, ma non tutti sono fatti per la politica, se per tale intendiamo un impegno di “militanza”.

Senonché, la politica è anzitutto “pensare politicamente” ed, in tale ottica, appartiene e compete a chiunque. Va concepita come  “funzione diffusa”, non più appannaggio esclusivo del “palazzo”, da cui va, anzi, snidata e riportata là dove nasce, dove sorgono nella spontaneità del vissuto sociale  i temi, gli argomenti, le sfide che è suo compito portare ad un punto di giudizio critico che consenta di “governare”, anziché subirli passivamente, i processi e le dinamiche sociali. Non ha senso, dunque, disputare tra chi ritiene indispensabile dar vita ad una forza politica organizzata e chi, al contrario, rifugga da tale impegno, preferendone un altro.

Anche INSIEME deve affrontare questo passaggio ponendo la sua funzione prettamente “politica” a servizio – con chi liberamente ci sta – di un più vasto concerto di ruoli e di competenze. Abbandonando il vecchio modello del “collateralismo”, tipico di una fase storica in cui necessariamente i partiti si ponevano come onnivori e pervasivi e presumevano di poter imporre una gerarchia funzionale che li collocasse al vertice della “piramide”.

Occorre, piuttosto, un modello alternativo, a rete, quindi paritario e collegiale, che permetta di creare collaborazioni e convergenze, che in nessun modo intacchino la libera identità e la particolarità del ruolo di ciascun contraente. Del resto, tra chi assume un impegno di militanza politica e chi opera nel tessuto della società civile corre, per forza di cose, un rapporto di corrispondenza biunivoca e di reciproca alimentazione.

Occorrerà costruire strumenti appropriati, protocolli di lavoro comune o carte d’intesa, incontri di studio o in forma assembleare che siano programmati per temi e sistematici, evitando, ad ogni modo, sovrapposizioni di ruolo e di responsabilità, secondo un criterio di reciproca franchezza e di libertà, nel rispetto delle rispettive autonomie di pensiero e d’azione.

Domenico Galbiati

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