Le tradizionali utopie della città si sono evolute negli anni recenti. Gli orientamenti estetici e politici si intrecciano con gli aspetti tecnologici. Inoltre, le nuove tecnologie influenzano le relazioni sociali e possono anche essere utilizzate per forme innovative di politica urbana. Pertanto, di volta in volta la città perfetta può essere definita come verde, sostenibile, intelligente, resiliente, generativa e così via.

La discussione ha antiche radici, ma si è molto sviluppata di recente nel contesto italiano e in quello internazionale.

Antiche radici

Possiamo considerare le città come l’habitat ideale per le popolazioni umane? Nel corso della storia, a questo interrogativo si è risposto secondo due modalità radicalmente contrapposte. Schematizzando un poco, possiamo considerare in primo luogo una valutazione ottimistica, che vede le città come il luogo migliore per la vita umana, come il centro privilegiato dello sviluppo e del progresso: la parola “civiltà” ha la medesima radice latina di “civitas” e questa etimologia la dice lunga sul dominio non solo economico ma anche culturale e sociale esercitato delle città sul resto del territorio.

Di antica tradizione sono però anche le valutazioni negative sulle città: dai tempi biblici si teme che in esse si concentrino i vizi peggiori, facendone un luogo di corruzione a cui non di rado si contrappone la vita sana delle campagne.

Se passiamo bruscamente dalle mitologie e dalle leggende del passato remoto all’epoca dell’industrializzazione fino ai giorni nostri, possiamo notare che le profondissime trasformazioni delle città non hanno sostanzialmente cancellato quelle due contrapposte valutazioni. Se ne sono però ovviamente modificati i contenuti.

Alla convinzione ottimistica di una superiorità economica, politica e culturale della città si sono per esempio aggiunti nel tempo altri vantaggi logistici, come la varietà e l’accessibilità delle possibili relazioni sociali, la qualità dei servizi di secondo e di terzo livello, il dinamismo accelerato del cambiamento.

Agli aspetti negativi tradizionali si sono potuti aggiungere in seguito altri elementi critici, quali per esempio il traffico caotico, la micro-criminalità e tutte quelle diverse forme di inquinamento atmosferico, sonoro e elettromagnetico che in città tendono generalmente a concentrarsi.

Qualunque sia la prospettiva di fondo accettata, non vi è oggi alcun motivo di dissenso sull’obiettivo di rendere migliori le nostre città, anche in considerazione del fatto che nel terzo millennio – per la prima volta nella storia umana – la maggioranza assoluta della popolazione terrestre vive in ambiente urbano.

Già i filosofi e gli artisti dei secoli passati si erano esercitati nel prospettare forme fisiche e strutture sociali della città ideale. Senza ritornare fino a Platone, il Rinascimento si caratterizza come un fertile terreno per tali proposte, tra cui la famosa città del Sole di Tommaso Campanella; forse non è un caso che in Inghilterra altri luoghi ideali siano stati prospettati invece su isole, come l’Utopia di Tommaso Moro o la Nuova Atlantide di Francesco Bacone. Quanto alle numerose realizzazioni pratiche, per limitarsi all’urbanistica italiana si possono citare solamente come esempi: Ferrara (progettata da Biagio Rossetti), Pienza (voluta dal Papa Pio II Piccolomini), Sabbioneta (residenza degli Estensi) o Palmanova (avamposto della Repubblica Veneta). La storia dell’urbanistica offre una rassegna esauriente di questi casi esemplari di organizzazione urbana e sociale elaborati nel passato.

Come è noto, dalla fine del Settecento si assiste alla progressiva formazione di città e di conurbazioni complesse generate dallo sviluppo delle grandi fabbriche manifatturiere. L’industrializzazione si afferma come un motore di giganteschi flussi demografici dalle campagne e dalle montagne alle città di pianura, e già in corrispondenza con la prima industrializzazione alcune soluzioni urbanistiche di carattere utopico sono formulate in particolare in Francia (con Fourier e Godin) e nel mondo anglosassone (con Owen).

Più concretamente realizzata a livello internazionale è l’idea della “città giardino”, popolarizzata soprattutto da Ebenezer Howard. La città giardino, con le sue molteplici varianti attuative, rappresenta un tentativo di coniugare estetica e igiene, in un contesto urbano-rurale dove si presuppone una vita ordinata e la mitigazione delle conflittualità sociali. È questa una prima diffusa linea di tendenza ideale per la riqualificazione urbana di una città che, giunti alle soglie del XX secolo, ha ormai fatti propri i caratteri fondamentali del fordismo industriale.

Una seconda linea di tendenza, concettualmente contrapposta, viene propugnata dagli anni Venti del Novecento dall’urbanista svizzero Le Corbusier, uno dei pionieri del cosiddetto “movimento moderno” in architettura e in urbanistica. Invece di compenetrare città e campagna, questa scuola di pensiero sostiene che il migliore rapporto tra gli esseri umani e l’ambiente, tra l’edificato e il territorio circostante, si ottiene concentrando gli insediamenti in enormi blocchi inseriti in immensi spazi aperti. Le città del futuro dovrebbero quindi raccogliere milioni di abitanti in costruzioni alte, con una densità edificatoria tale da minimizzare le necessità di consumo di suolo.

Col senno di poi, si potrebbe osservare che in linea di massima la prima linea di tendenza è risultata nei fatti vittoriosa, se pensiamo a quella diffusione urbana (nota come sprawl) che caratterizza in particolare le città occidentali, con un enorme consumo di suolo oggi da molti fortemente criticato. Non mancano però, soprattutto al di fuori dell’Europa, realizzazioni che sembrano ispirarsi al secondo modello: questo comporta una ridefinizione sociale della qualità dell’abitare significativamente diversa da quella tradizionalmente più consueta, che in linea generale è ostile agli insediamenti residenziali realizzati in edifici molto voluminosi. Una curiosa dimostrazione di quanto possano influire gli stilemi tradizionali sulla valutazione sociale diffusa della qualità dell’ambiente urbano si può ricavare digitando su Google-immagini la stringa di ricerca “città mostruose”: alcune delle fotografie presentate illustrano situazioni che potrebbero addirittura essere considerate come esemplari, qualora si seguissero le indicazioni di Le Corbusier.

Nel corso del Novecento si diffondono globalmente nuovi parametri di valutazione della qualità urbana, sviluppando anche le intuizioni di una ricca scuola di pensiero nota come “ecologia urbana”, che a Chicago ha avuto il principale centro di diffusione. In corrispondenza della sempre maggiore rilevanza assunta nelle società odierne dalle preoccupazioni ambientali, il concetto di qualità urbana si arricchisce così di ulteriori valenze: per rendere appetibile una città non contano più soltanto l’opulenza economica, i valori estetici (paesaggistici, urbanistici o monumentali), lo sviluppo scientifico e tecnologico o la concentrazione del potere politico, religioso e militare, ma contano anche la dotazione di servizi pubblici e la loro accessibilità, la sicurezza e l’equità sociale, la salvaguardia dell’ambiente naturale e artificiale, le opportunità per il tempo libero.

Attorno a una costellazione di indicatori sempre più raffinati e aggiornati si tratteggia così poco per volta il profilo contemporaneo della nuova città ideale, affiancando ai concetti poliedrici e sintetici di benessere e di qualità della vita (o “vivibilità urbana”) alcune altre suggestive aggettivazioni: la città tende così a definirsi per esempio come verde, sostenibile, globale, inclusiva, resiliente e generativa; ultimamente, poi, molto si è parlato di basse emissioni di carbonio, di rigenerazione urbana e soprattutto di smart city. Va infine sottolineato che, in un mondo dove la percentuale della popolazione urbana ha superato da alcuni anni quella della popolazione extraurbana, sempre più spesso si parla di città policentriche e reticolari, cioè di territori anche molto estesi che assumono la configurazione di conurbazioni complesse.

Nuovi criteri

Una valutazione integrata delle città contemporanee come ecosistemi complessi implica dunque l’adozione di modelli di analisi che considerano simultaneamente molti fattori ambientali, economici, sociali, tecnologici, culturali e politici. In particolare, nelle diverse ricerche, il bilanciamento tra fattori tecnologici e fattori sociali risulta tutt’altro che stabile e coerente. Vediamo qualche esempio.

Un primo caso è quello delle città “verdi”. Si propone così un evidente riferimento a un colore emotivamente molto suggestivo, non solo perché contraddistingue fin dalle loro origini i movimenti politici ecologistici, ma anche perché si contrappone al colore “grigio” delle città più inospitali. Nell’ambito dell’Unione Europea, un’iniziativa pionieristica per le città verdi viene avviata già nel 1996 con l’istituzione ad Aarhus, in Danimarca, dell’European Green Cities Network (EGCN). Si tratta di una comunità su base volontaria, avente l’obiettivo di realizzare progetti che riguardano essenzialmente le energie rinnovabili, la riqualificazione edilizia per ridurre i consumi energetici e le emissioni, la pianificazione territoriale sostenibile. È quindi molto evidente l’interesse per gli aspetti tecnologici.

Una seconda iniziativa viene promossa dall’OECD, nel giugno 2009. Anche il “Green Cities Programme” manifesta egualmente un’attenzione quasi esclusiva per l’innovazione tecnologica, applicata su obiettivi quali il contrasto ai cambiamenti climatici e lo sviluppo sostenibile dei trasporti. Solo nel 2013 l’OECD utilizza una serie più ampia di indicatori, che spaziano dalle politiche urbane alle problematiche occupazionali, aprendo quindi la prospettiva agli aspetti di carattere sociale.

Un terzo caso riguarda le città sostenibili. La divulgazione del criterio della sostenibilità riceve un decisivo apporto dal convegno mondiale sull’ambiente di Rio de Janeiro, svoltosi nel 1992. Nasce infatti l’anno successivo a Vancouver, in Canada, l’organizzazione volontaristica Sustainable Cities International (SCI). Nel 2001, la Commissione Europea propone l’applicazione di dieci indicatori comuni di sostenibilità locale, dei quali cinque si riferiscono ad aspetti economici o organizzativi (attività produttive e gestionali, mobilità pubblica e percorsi degli alunni tra casa e scuola, servizi pubblici locali) e altri quattro riguardano la salubrità dell’ambiente fisico (inquinamento del suolo, atmosferico e acustico, oltre al controllo dei cambiamenti climatici). Vi è quindi un’enfasi molto marcata per le problematiche che possono essere affrontate con provvedimenti di carattere tecnico, mentre riguardo ai fattori sociali si propone un unico indicatore: la “soddisfazione dei cittadini per la comunità locale”.

Se si scorre l’elenco delle 148 città europee che alla fine del 2003 avevano aderito all’iniziativa, si nota che in generale si tratta di comuni di medie dimensioni: questo trova corrispondenza con un presupposto assai noto e diffuso, ovvero che le migliori città non possano essere troppo grandi, perché altrimenti perderebbero la “dimensione umana”. Questo presupposto, sebbene indimostrato, si è tradotto addirittura in un parametro semiufficiale assai diffuso in sede europea, successivamente rafforzato con la straordinaria diffusione del concetto di “smart city”, che può essere considerato come riassuntivo dell’idea di una configurazione di eccellenza per le città, le metropoli e le aree metropolitane.

Piccolo è bello?

Ne è una prova il modello “esagonale” di smart city proposto in un rapporto di ricerca elaborato nel 2007 dall’università di tecnologia di Vienna, in collaborazione con l’università di Lubiana e con l’università di tecnologia di Delft. La semplicità e la sostanziale completezza di questo approccio ne hanno facilitato una diffusione particolarmente ampia, tanto che le sei caratteristiche di smartness prospettate hanno costituito un buon punto di partenza richiamato da vari studi successivi. Esse riguardano: la popolazione, l’abitare, la governance, l’economia, la mobilità e l’ambiente.

Questo modello è stato utilizzato per stilare una classifica di 70 città europee con meno di 500.000 abitanti e dotate di istituzioni universitarie: questo dimostra la scelta a priori per le medie dimensioni urbane, nonché un’enfasi particolare sull’accesso ai più alti livelli di istruzione.

Per rendere operativa l’analisi delle sei aree caratteristiche del modello sono poi stati individuati al loro interno 31 fattori costitutivi, a loro volta ponderati attraverso 80 indicatori. I fattori proposti dallo studio in esame riguardano, con un buon equilibrio, sia le dotazioni materiali della città (fisiche, finanziarie e tecnologiche), sia gli aspetti socio-culturali che qualificano una cittadinanza attiva e appagata.

Sono rappresentate nel campione città di quasi tutti i Paesi dell’Unione Europea. Sulla base degli indicatori suddetti, nella classifica delle 70 città prese in eame svetta per prima Lussemburgo, seguita da sei città finlandesi o danesi. Dall’8a alla 15a posizione troviamo città olandesi e austriache, con l’unica eccezione della francese Montpellier, all’11° posto. Sempre nella fascia alta della graduatoria compaiono città del Belgio, della Slovenia e della Svezia, rispettivamente al 16°, 17° e 20° posto. La prima città tedesca compare solo al 22° posto, le prime quattro del Regno Unito sono concentrate dal 36° al 39°, le prime città spagnole e italiane compaiono rispettivamente al 41° e al 45° posto: a proposito di bias dei ricercatori, non sembri maliziosa l’osservazione che i maggiori Paesi dell’Unione siano così sottorappresentati, in uno studio condotto da università austriache, olandesi e slovene…

Analogamente, i vari enti che in Italia ogni anno stilano le classifiche delle città dove si vive meglio hanno collocato assai raramente ai primi posti Roma o Milano, privilegiando quasi invariabilmente le medie città di provincia. Vediamo qualche esempio e alcune recenti indicazioni che invece smentiscono certi luoghi comuni.

Il quotidiano “Italia Oggi”, che da un ventennio propone queste graduatorie, per il 2018 assegna i primi tre posti rispettivamente a Bolzano, Trento e Belluno. Il rapporto “Ecosistema urbano” di Legambiente indica invece Mantova, Parma e Bolzano, mentre il quotidiano cattolico “Avvenire” indica Bolzano, Trento e Pordenone. Scorrendo le classifiche degli anni precedenti, si nota che il predominio della circoscrizione nord-est è costante nel tempo.

Solo le graduatorie 2018 segnalano Milano al primo posto in due rapporti di ricerca autorevoli: quello del “Sole –24Ore” (Milano, Bolzano e Aosta) e quello di FPA (Milano, Firenze e Bologna).

È evidente che, in funzione dei parametri adottati, queste classifiche possono variare molto anche nel medesimo anno. Per esempio, il predominio delle città alpine o di pianura verrebbe incrinato se l’accesso al mare e la sua fruizione fossero considerati fattori qualitativamente importanti.

 Le città globali

Un criterio alternativo, che può rimettere in gioco le maggiori aree metropolitane del mondo, è sintetizzato dall’espressione “città globale”. Si fa riferimento in questo caso a una letteratura che ha in Saskia Sassen un fondamentale riferimento e che valorizza quelle metropoli particolarmente importanti sulla scena internazionale non solo riguardo all’economia, alla finanza e al commercio, ma anche alla cultura e alla politica.

In tale prospettiva Pricewaterhouse Coopers, una delle maggiori società internazionali di revisione e di consulenza finanziaria, produce da alcuni anni il rapporto “Cities of Opportunity”, che esamina 30 città globali con l’obiettivo di individuare i principali fattori di un’attrattiva economica e culturale che permanga stabile nel tempo: si parla dunque di comunità urbane “resilienti”, in grado di qualificarsi nel lungo termine come attori protagonisti sullo scenario mondiale. Questa graduatoria vede Londra al primo posto, seguita da Singapore e Toronto, che nel 2016 hanno sostituito New York rispetto alla precedente edizione; ma è interessante osservare anche la rilevanza acquisita sullo scenario mondiale dall’Asia, dove sono situate ben 11 delle 30 città in esame.

Va notato che il contesto economico in cui questa ricerca nasce non conduce affatto alla riduzione dei parametri di qualità presi in esame unicamente alla sfera finanziaria o tecnologica, ma riconosce esplicitamente l’importanza dei fattori socio-cultuali: emblematica appare a questo proposito l’affermazione che: “Ci vuole una città per fare un cittadino e viceversa”. Pertanto, tra i dieci indicatori utilizzati figurano la formazione (capitale umano innovativo), il benessere psico-fisico (salute e sicurezza) la vivibilità (equilibrio demografico, opportunità culturali), la sostenibilità ambientale (rispetto della natura) e la caratura della città (importanza storica). Riguardo alla qualità della vita, hanno certamente una valenza tecnologica ed economica la dotazione di servizi (abitazioni, trasporti pubblici, servizi socio sanitari, gestione dei rifiuti, verde pubblico), il cui gradimento tuttavia è condizionato dalla valutazione socio-politica sull’amministrazione della comunità locale. Un solo parametro considera lo sviluppo tecnologico e, riguardo al potenziale economico, l’enfasi riguarda soprattutto il differenziale dei costi, cioè la misura in cui una città è in grado di sostenere a lungo termine quel livello di eccellenza che le rende così appetibili.

Una riflessione specifica comporta il requisito dell’accessibilità globale (city gateway): esso riguarda una particolare forma di mobilità, per esempio quella dei professionisti, dei tecnici e degli operatori economici o culturali che operano a livello internazionale. Evidentemente, per queste popolazioni, una città ottimamente servita da un aeroporto intercontinentale può considerarsi molto più appetibile di un’altra in cui invece è incoraggiata la mobilità ciclistica, un requisito quest’ultimo che è invariabilmente citato da quanti preferiscono considerare i percorsi urbani quotidiani. La propensione all’accessibilità globale o all’accessibilità locale è un’ulteriore dimostrazione della variabilità dei parametri di qualità urbana in funzione dei gruppi di riferimento considerati.

Un’altra classifica di ampio respiro­ internazionale è rappresentata dall’indagine Mercer Quality of Living, giunta alla sua ventesima edizione. Vienna è in testa alla graduatoria per il nono anno consecutivo, seconda è Zurigo, terze a pari merito Auckland e Monaco di Baviera.

In Italia, le città che aspirano a definirsi “globali” non possono certamente puntare sull’aspetto dimensionale. A confronto con le megalopoli (mature ed emergenti) di altre parti del mondo, non esistono infatti nel nostro Paese città davvero “grandi”. Naturalmente, il significato di questo aggettivo è straordinariamente variabile: per chi è abituato a un piccolo comune può sembrare grande una città di 300mila abitanti, mentre per gli abitanti di quest’ultima possono sembrare grandi città come Napoli o Torino, che non arrivano al milione di abitanti. È molto probabile però che chi frequenta le gigantesche metropoli internazionali, che superano i 10 milioni di abitanti, possa avere l’impressione che in Italia anche Roma e Milano siano esistano città di medie dimensioni.

La smart city

Da quanto osservato fino ad ora emerge l’opportunità di configurare la smart city italiana (ma anche europea) puntando su fattori qualitativi e immateriali più che sulle economie di scala. Nello scenario internazionale le nostre città storiche, pur qualificabili di necessità come centri di medie dimensioni, possono tuttavia competere a livello globale grazie alle reti di interconnessione disponibili. Tanto più che, per la mobilità fisica di persone e di merci, siamo avvantaggiati da distanze non grandi tra i diversi nodi delle nostre conurbazioni regionali, mentre notoriamente per i contatti telematici le ICT (Information and Communication Technologies) offrono oggi possibilità di enorme interesse, tali da superare i tradizionali vincoli logistici. È lecito quindi immaginare che l’Italia, col suo ricco patrimonio artistico e culturale, possa essere favorita per sviluppare un’esperienza innovativa di smart city, configurata come un reticolo multipolare di centri urbani storici tra di loro interconnessi.

Tutto ciò risulta coerente con la diffusione delle esperienze di smart city in Europa, così come descritte nel rapporto Smart Cities and Communities, prodotto nell’ambito della partnership tra amministrazioni locali, industrie e cittadini denominata EIP – SCC (The European Innovation Partnership on Smart Cities and Communities). La smart city viene definita come un sistema sociale che utilizza flussi di energia, materiali, servizi e finanziamenti per uno sviluppo sostenibile, la resilienza e una qualità della vita elevata; le ICT e una pianificazione urbana trasparente sono indicati come i caposaldi per rispondere alle necessità socio-economiche della comunità locale.

In questo documento si nota, rispetto al modello esagonale sopra considerato, una sostanziale identificazione delle problematiche ambientali con le questioni energetiche (sono espliciti i riferimenti agli obiettivi energetici e climatici europei noti con la sigla 20/20/20). Si sottolinea poi l’importanza di piattaforme tecnologiche utili a consentire un’interconnettività pervasiva, quanto meno per le popolazioni urbane che possono usufruire delle reti telematiche. Si affrontano infine alcuni aspetti collaterali utili per lo sviluppo della smartness, come i metodi e gli standard per accertarne le prestazioni, le strategie di finanziamento e la condivisione delle conoscenze attraverso il libero accesso alle banche dati urbane.

Gli studi più recenti confermano che anche in Italia si moltiplicano le esperienze locali di smartness urbana, con una configurazione poliedrica: tra le caratteristiche auspicabili più propriamente culturali e socio-politiche ritroviamo per esempio l’innovazione partecipativa, la resilienza rispetto ai rischi urbani e l’equità sociale.

In corrispondenza, altre valenze interessanti possono emergere: per esempio, l’enfasi sulla sussidiarietà orizzontale reclama regole nuove, che incoraggino la flessibilità e la collaborazione tra i vari attori sociali operanti sul territorio: pubblici, privati e di terzo settore. Si diffondono anche nuove esperienze, non di rado denominate in lingua inglese, come sharing economy, coworking, social housing. Un obiettivo socio-politico strategico come quello della transizione verso modelli di vita più sobri e meno energivori viene infine propugnato dal network internazionale delle città di transizione (Transition Towns), una variante ambientalistica radicale della smart city che presuppone cambiamenti culturali rilevanti.

L’accesso pubblico a un’incredibile quantità di informazioni condivisibili (big data) sembra ridimensionare significativamente, nella smart city, la distinzione tra mondo virtuale e mondo reale: ne sono un esempio le applicazioni note come “realtà aumentata”, che attraverso elaboratori o dispositivi telefonici mobili di ultima generazione forniscono ai canali sensoriali indicazioni suppletive immediate.

In sottofondo però, come si vede benissimo anche in l’Italia, riaffiora di tanto in tanto quell’identificazione riduttiva della smart city con la tecnopoli, cioè con una città caratterizzata dalla diffusione di marchingegni tecnologici sempre più sofisticati e sorprendenti. Va dunque ricordato che le più ardite opportunità tecnologiche comportano particolari cautele, per prevenire che ne derivino impieghi pericolosi, se non illeciti: come sempre, gli strumenti disponibili non sono in sé né buoni né cattivi, ma dipendono dall’uso che se ne fa. Possono incoraggiare nuove utopie urbane, così come possono permettere più insidiose malversazioni.

In conclusione, rimangono pur sempre ineludibili le problematiche di carattere socio-politico sopra accennate, come la partecipazione ai processi di governance e l’inclusione sociale, ai cui fini le tecnologie e la connettività si manifestano come strumenti di sviluppo utilissimi, sebbene non sempre accessibili a tutti.

Enrico Maria Tacchi

 

 

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