I partiti politici, così come li abbiamo conosciuti fino alla metà degli anni ’90 – dopo non sono più esistiti, se non come aggregazioni “ad personam” – sono figli addirittura dell’800.
Figli, cioè, della modernità; espressioni di una cultura che si concepiva organica e totalizzante, razionale e razionalizzante, diretta a ricercare a suo modo, anche sul piano delle scienze umane, quella che, in analogia alle scienze della natura, si potrebbe chiamare la “legge del tutto”. Tesa, cioè, ad individuare un criterio interpretativo, un principio, uno schema concettuale che, anche qui con qualche analogia al campo scientifico, funzionasse come un assioma da cui far derivare, deduttivamente ed in modo certo, quasi meccanico, una comprensione piena degli accadimenti, anzi la struttura intrinseca, necessaria e cogente della loro dinamica, così da poter trasformare il mondo – come supponeva Marx – anziché limitarsi a descriverlo.
Ne sono nati i partiti ideologici; sostanzialmente sistemi logici chiusi. Senonchè ora siamo entrati in un’altra fase storica. Ed anche la fisionomia da dare ad un partito ci deve fare i conti. Siamo pervenuti alla complessità. Il mondo – come ebbe ad osservare il Cardinal Martini – non è un tutt’uno, un “insieme” univoco, ma piuttosto un insieme di sotto-sistemi, ognuno con le proprie regole, da cui la frammentazione che osserviamo.
Ne deriva che le forze politiche del tempo presente tendono a porsi come partiti “del fare”, affogati dentro una logica empirica che accetta e subisce una segmentazione difficilmente ricomponibile dei temi che sono chiamati ad affrontare, assumendo come unico riferimento, a suo modo organico, il carisma del capo.
Insomma, dal tutto, dal troppo della politica, al nulla o quasi – come lamentava Martinazzoli – gli estremi si toccano e si intrecciano. Peraltro, le fessure e gli spazi che si aprono tra l’uno e l’altro frammento del nostro attuale contesto sono soltanto vie di fuga da cui si disperde quel senso compiuto delle cose del mondo che pensavamo di custodire orgogliosamente nel bastione della modernità? O non sono fors’anche da interpretare come finestre che liberano lo sguardo verso scenari inediti e forse fin qui impensabili?
In quel sentimento di dissipazione sfuggente che ci trasmette la cosidetta “società liquida” non possiamo forse scorgere in positivo anche un elemento di duttile plasticità che predispone la possibilità di superare incrostazioni inveterate e costruire, invece, nuovi equilibri più’ virtuosi? Non dipende forse anche da noi?
A monte dell’impresa cui ci accingiamo, in fondo, prima della dottrina, prima del progetto e del programma, ci deve stare una ragione morale, un costume, un atteggiamento che abbracci e guidi tutti i passi successivi. De Gasperi avrebbe potuto ricostruire il Paese se il suo animo fosse stato oppresso da una acrimonia rancorosa di fronte alle immani difficoltà del momento, piuttosto che dalla serenita’ e dalla speranza dell’uomo di fede?
A noi compete trovare la giusta via per disegnare un partito del tempo post-moderno che sia, anzitutto e necessariamente, un sistema aperto. Capace, cioè – sul fondamento di un impianto di valori e di categorie interpretative che ne definiscano l’identità – di imparare induttivamente dall’esperienze e, quindi, progressivamente arricchire ed affinare la propria capacità di indirizzo.
La realtà, con i suoi sviluppi, spesso imprevedibili e sorprendenti, èsempre piùricca, più autentica, più vera di quanto non imagini chi vorrebbe imbragare la storia nelle maglie preordinate della propria ideologia. Per questo, oltre che sull’autonomia e sulla nuova classe dirigente, dobbiamo investire sulla competenza degli amici che concorrono a questa nuova impresa.
Abbiamo bisogno di leggere in tutte le loro pieghe la fisionomia intricata, le reciproche dipendenze tra l’uno e l’altro profilo del mondo in cui operiamo. Serve una forza agile e compatta, che sia davvero “collegiale”, plurale e non verticistica.Una forza “umile”, nel senso proprio del termine, cioe’ cosciente del divario abissale che corre tra le nostre capacita’ e le sfide del tempo.
Eppure una forza fiduciosa e determinata che sappia “ascoltare” l’intero ventaglio delle questioni in campo e riportarle a quel punto di sintesi che permetta di formulare un giudizio motivato ed un indirizzo. Appunto come un ventaglio che non sarebbe tale se le sue stecche, a dispetto della loro ampia apertura, non si ritrovassero in un nodo che le raccoglie nel loro insieme.
La competenza, dunque. Forse non sarebbe male se il “partito” che, come tale, ha una sua specifica vocazione attiva che, giorno per giorno, sta sul pezzo delle tematiche contingenti, fosse affiancato, ad esempio, da una Fondazione, cioe’ da una entita’ che adotti tutt’altra tempistica, studi, approfondisca i temi di lungo termine, quelle linee di tendenza – diciamo pure, con un linguaggio oggi forse desueto, quei “segni del tempo” – che consentano di anticipare l’azione, evitando che l’impellenza delle trasformazioni ci trovi sempre impreparati, costretti ad arrancare in ritardo.
Cosa significa costruire oggi – non ieri, quindi assumendo tutto il carico di novità che ciò di per sè comporta – un partito politico?Quindi – e qui si pone una criticità intrinseca al processo di cui si deve essere consapevoli – una struttura organizzata che è e si fa “parte” eppure tende al “tutto”; diretta, cioè, a “comprendere” gli eventi entro quella complessiva dimensione di sintesi che la politica

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