Più il tempo corre, specialmente giunti nella “età grande”, più le opinioni volgono verso la temperanza.

A proposito del nostro governo, se la politica internazionale sembra stabile e allineata senza riserve su atlantismo e fiducia europea (a parte telefonate farlocche)  quella interna mette a dura prova anche le sette virtù cardinali.

Vedi la recente e improvvisa sortita di riforma costituzionale che introdurrebbe la nomina diretta del Presidente del Consiglio.

Il “premierato”, così è definita la riforma, è già diventato uno slogan. C’è da sperare che faccia la fine degli altri ben conosciuti nell’ultima campagna elettorale e diventati un flop: dalla riforma delle pensioni, alla riduzione delle imposte, alla flat tax, al blocco navale (no, per fortuna), al ribaltone della legge Fornero e così via.

Per ora c’è solo un annuncio e una bozza del progetto di legge costituzionale anche se si è diffusa una strana sintonia nella maggioranza di governo, Come dire: su questa siamo d’accordo e la facciamo. Anche se dovrà passare ragionevolmente da un referendum popolare.

La bozza ha poche idee ma confuse. Non si supera il bicameralismo perché restano i due rami del Parlamento; c’è il premio di maggioranza senza prevedere un quorum di voti da raggiungere; finiscono i ribaltoni con la possibilità di cambiare premier ma solo nell’ambito della stessa maggioranza; c’è una forte limitazione ai poteri del Presidente della Repubblica. Quasi come il famoso semipresidenzialismo proposto da Almirante (e Amato) nel 1983.

Ti dicono che in questo modo saremo allineati ai modelli degli altri Paesi occidentali. Non è vero. Non certo a quello tedesco, dove il Cancelliere è eletto dal Parlamento senza dibattito, ma su proposta del Capo dello Stato. Né a quello inglese, dove i partiti in competizione sono solo due: conservatori e laburisti. Né tantomeno a quello americano, con il Presidente eletto dal popolo ma in un sistema di bilanciamento dei poteri solido e intoccabile. In un solo caso (Israele) era stato introdotto un modello del genere ma nel giro di un triennio è stato poi revocato.

Non c’è quindi un paese nell’area OCSE dove esista una riforma di questo tipo. Clamorosa è la mancanza di un quorum per avere il premio di maggioranza, anche riferito a una coalizione. Ancora più lesivo è l’attacco al Presidente della Repubblica che con la riforma che si profila sarebbe ridotto ancor meno alla funzione notarile ma piuttosto a quella di maggiordomo di Corte. E che dire del Parlamento, che risulterebbe svuotato delle sue prerogative, non rappresenterebbe un contrappeso ma piuttosto un consesso di cavalier serventi?

Se poi si tiene conto che il sistema elettorale risulterebbe definitivamente maggioritario, con le liste fatte dai partiti (o da ciò che resta di quelli veri) torneremmo al tempo nel quale i senatori venivano nominati dal Re. Con la differenza che il Re nominava i notabili e i partiti oggi nominerebbero portaborse, cognati, cugini o capibastone.

La grande riforma annunciata, sia pure resa nota per ora solo con una bozza, è quindi un pastrocchio generico e pericoloso. Uno slogan insomma. E siamo sempre lì.

Guido Puccio

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