A Berlino i principali attori internazionali e le parti in causa nella disputa politico-militare interna tentano la mediazione finale per il futuro della Libia, dopo che Russia e Turchia hanno posto una pesante ipoteca sulla spartizione delle aree di influenza nel Paese.

Al centro, al di là di una generalmente auspicata de-escalation del conflitto, anche i grandi interessi economici che l’ex feudo di Muhammar Gheddafi porta in dote, petrolio in primis. Non a caso, alla vigilia del vertice e per porre ulteriore pressione sui negoziati, la compagnia petrolifera statale libica (Noc) – di fatto sotto il controllo delle forze fedeli al generale Haftar – ha fermato l’export di petrolio da tutti i terminal e i porti della Libia centrale e orientale. Stando a fonti libiche, la decisione provocherà un taglio dell’export di almeno 700mila barili e un calo di introiti al giorno di 47 milioni di dollari.

Immediata la reazione della missione Onu in Libia, la quale ha espresso “profonda preoccupazione per gli attuali sforzi per interrompere o compromettere la produzione di petrolio, una mossa che avrebbe conseguenze devastanti prima di tutto per il popolo libico ed effetti terribili per la situazione economica e finanziaria già deteriorata del Paese”.

Questo nonostante l’oro nero abbia mostrato ancora una volta come le dinamiche produttive di saturazione sembrino oscurare qualsiasi tensione geopolitica, visto che al balzo del 5% seguito all’attacco statunitense in Iraq contro il numero due del regime iraniano, è seguita una pressoché immediata ritirata delle valutazioni del barile
entro i margini di oscillazione degli ultimi trimestri.

In compenso, questo grafico ci mostra come il blitz statunitense contro Teheran e il conseguente innalzamento della tensione fra i due Paesi abbia visto come beneficiario assoluto, a fronte appunto di una fiammata dal fiato corto del greggio, l’HACK, ovvero l’Etf che traccia il comparto della cybersicurezza. Warfare batte energia 1 a 0, una parte
del complesso industriale Usa ha comunque modo di festeggiare. E, stante i crescenti focolai di tensione ai quattro angoli del globo e l’ultimo scambio di insulti e minacce fra l’ayatollah Khamenei e Donald Trump, non solo nel breve termine. Ma tornando al petrolio, a certificare come la saturazione del mercato sia ancora ben lungi dall’essere digerita ci ha pensato il January Oil Market Report della International Energy Agency (Iea), la quale certifica come “la crescita dei produttori non-Opec garantisce ormai un cuscinetto di reazione contro ogni possibile tensione geopolitica, fornendo una fonte alternativa immediata e di enorme capacità contro possibili scenari di interruzione o danneggiamento della produzione in Paesi divenuti scenari di conflitto“.

A conferma della sua tesi, in base alla quale il prezzo del Brent resterà attorno ai 65 dollari al barile almeno per la prima metà di quest’anno (contro i 64 del medesimo periodo dell’anno scorso), la Iea cita l’esempio dell’attacco contro la raffineria Aramco del 14 settembre e i timori che questo instillò immediatamente sul mercato rispetto a un
drastico calo della produzione saudita. Così non fu, tanto che il Brent cedette in tempi molto rapidi i 4 dollari al barile di aumento che aveva prezzato nell’immediato.

Insomma, a fronte di sempre più Paesi produttori che hanno ridimensionato pesantemente il ruolo e il potere
di ricatto dell’Opec e di una crescita globale in continuo rallentamento (tanto che l’Onu, nel suo outlook per il 2020, parla apertamente di slowbalisation), il prezzo del petrolio non pare destinato a rialzarela testa, con enorme preoccupazione per quei Paesi, Arabia Saudita in testa, i cui deficit vengono finanziati al 90% dai petrodollari e che
vedono quindi i conti pubblici e le entrate fiscali in grave e protratta situazione di sofferenza. Ma c’è dell’altro e a livello più sistemico.


Come mostra questo grafico, dopo decenni di dipendenza estera e soprattutto mediorientale, a metà dello scorso mese di dicembre gli Usa per la prima volta in assoluto hanno assunto lo status ufficiale di Paese esportatore netto. Insomma, non solo affrancati dal giogo energetico ma anche capaci di sedersi in prima fila al tavolo sempre  più affollato di chi distribuisce le carte al di fuori dell’ambito storico dell’Opec. Una nuova era? In parte, sì. E questo porta con sè anche la possibilità per Washington di calibrare la propria politica in Medio Oriente partendo unicamente dai propri interessi e non più soppesando ogni mossa in base al bilancino da do ut des delle necessità energetiche che dettavano anche l’agenda geopolitica e delle alleanze. E qualche dietrologo potrebbe strabuzzare gli occhi di fronte alla coincidenza in base alla quale nel medesimo giorno in cui la Casa Bianca autorizzava il raid in Iraq, la US Energy Information Administration comunicasse come gli Stati Uniti avessero appena infranto il record di 1,73 milioni di barile di esportazione netta al giorno.

Il varco del Rubicone energetico, in gran parte dovuto alla moderna febbre dell’oro legata allo shale oil, rivoluzione estrattiva che ha visto entrare in gioco una miriade di piccoli produttori al fianco di giganti come Exxon Mobil.
Inoltre, rispetto al passato, ogni rally petrolifero oggi trova un venditore naturale, visto che i piccoli produttori minimizzano i rischi operando in modalità di hedging. E il boom appare tutt’altro che esaurito, visto che la scorsa settimana la Occidental Petroleum Corporation, uno dei più grandi estrattori nel prolifico bacino Permian di Texas e New Mexico, ha comunicato di aver aumentato i propri hedges di produzione per il 2020 da 300mila e 350mila barili al giorno con l’aiuto delle banche di Wall Street, corse a offrire i propri servigi dopo l’uccisione del generale
Soleimani. E l’attività di hedging, ovvero assicurazione sulle oscillazioni del prezzo (storica arma di difesa delle linee aeree), garantisce ai produttori Usa di poter mantenere una produzione alta anche in condizioni di criticità del mercato: insomma, quando gli altri devono tagliare o ridurre, oltreoceano si continua business as usual a
pompare. Non a caso, parlando alla Casa Bianca l’8 gennaio scorso dopo il raid, lo stesso Donald Trump dichiarò come “l’America è ormai indipendente  a livello energetico, non abbiamo bisogno del petrolio del Medio Oriente”.

Certo, l’enfasi dell’inquilino di Pennsylvania Avenue era eccessiva ma i dati parlano chiaro: nel 2018, l’export di petrolio da Medio Oriente e Nord Africa pesava per il 38% del totale, già in calo dal 43% del 2008, stando a rilevazioni di BP. Inoltre, una proporzione significativa del petrolio Usa ha come destinazione l’Asia, storico
approdo del greggio del Golfo Persico che quindi vede erosa una sua quota di mercato decisamente sensibile. Il tutto con la Cina e la sua  economia energivora che ha creato riserve strategiche nazionali enormi, passando dai 191 milioni di barili di metà 2015 ai circa 800 milioni dell’ultima rilevazione dello scorso settembre.

Insomma, Pechino è più che garantita da shock temporanei anche di grossa entità su produzione e distribuzione. E nonostante anche l’Arabia Saudita possa contare su uno stockpile estero, fra cui un hangar da oltre 8 milioni di barili
sull’isola giapponese di Okinawa, proprio Ryad rischia di uscire come la grande sconfitta dal Risiko energetico silenziosamente in atto a latere dei vari conflitti nell’area mediorientale. La conferma, tutt’altro che indiretta, è giunta proprio nei giorni di massima tensione fra Iran e Usa e di conseguente aumento del prezzo del greggio, quando la neoquotata Aramco ha conosciuto continui cali del proprio titolo dopo l’Ipo nella Borsa della capitale saudita. Il 14 gennaio scorso, poi, la mossa che ha reso palese al mondo come il Re fosse nudo.

Come mostrano questi grafici, dopo poco più di un mese di contrattazioni il gigante petrolifero del Regno ha infatti esercitato la cosiddetta opzione green shoe, ovvero la possibilità di emettere altri 450 milioni di azioni che hanno permesso alla valutazione finale dell’Ipo di salire di altri 3,8 miliardi e raggiungere il record assoluto per un collocamento di 29,4 miliardi di dollari. Ma se la possibilità di far ricorso alla green shoe è assolutamente legale e decisamente diffusa, altresì tradisce quasi sempre la volontà/necessità del collocatore di mantenere alte le valutazioni del titolo: insomma, un palese sostegno.

Ma come mostra il secondo grafico, nonostante questo e al netto della temporanea impennata delle valutazioni del greggio sulla scorta delle rinnovate tensioni geopolitiche, l’azione del gigante energetico saudita ha già patito un calo del 10% rispetto al prezzo dell’Ipo di inizio dicembre. Se anche dopo aver esercitato la green shoe quella discesa verso il livello di collocamento dovesse proseguire, allora i guai potrebbero davvero aumentare.

Primo, perché ai prezzi imposti al mercato dal principe Mohammed bin Salman per la prima tranche collocata, nessun investitore estero si azzarderebbe a rischiare, tanto più con un titolo quotato unicamente a Ryad e con il 5% divenuto pubblico tutto in mani retail o di fondi sauditi e del Golfo. Secondo, a inizio giugno – salvo cambiamenti – scadrà il periodo di lock up, la detenzione obbligata del titolo per chi già lo detiene in portafoglio, opzione solitamente legata alla volontà di chi emette di  prevenire sell-off nel periodo più delicato di inizio collocamento.

Se entro marzo qualcosa non dovesse cambiare e, anzi, il titolo scendesse sotto il prezzo imposto per l’Ipo, massimo della forchetta, allora la tensione potrebbe davvero alimentare ulteriori cali, portando la situazione verso un pericoloso avvitamento. Ed essendo la privatizzazione di una quota sempre maggiore di Aramco la chiave per finanziare il progetto di riforme Vision 2030 del principe ereditario, a quel punto la crisi da petrodollaro potrebbe farsi davvero seria e di prospettiva.

Gli investitori Usa, rimasti strategicamente alla finestra della prima Ipo, si trasformeranno in “cavaliere bianco” o il rinnovato status di esportatore netto garantirà a Washington altro tempo per far rosolare a fuoco lento il tignoso alleato nell’area? Senza contare i ricaschi finanziari: senza i soldi di Aramco, la stessa partecipazione del Fondo sovrano saudita nei progetti di investimento di SoftBank (di cui è primo azionista) potrebbe infatti essere a rischio. A quel punto sì, qualcuno Oltreoceano potrebbe essere tentato dal blitz per acquisire a prezzo quasi di saldo dei bocconi davveroprelibati, anche al netto dei guai di Uber e WeWork.

La musica, forse, è davvero cambiata. O, quantomeno, pare mutata l’orchestra che la suona.

Mauro Bottarelli

Pubblicato su Businnes Insider

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