La denuncia del populismo – che sia di destra oppure di sinistra o sedicente tale, vedi Movimento 5 Stelle – è’ un utile esercizio dialettico. Mantiene viva l’attenzione nei confronti di un fenomeno preoccupante, nella misura in cui è, ad un tempo, effetto e causa dell’ottundimento della coscienza civile dei cittadini. Ma, in realtà, l’esecrazione come tale, per quanto, qua e là, la si legga un po’ ovunque, non esorcizza il fenomeno e soprattutto non porta da nessuna parte, se non si cerca di capire più a fondo da dove nasca, cosa sia, dove intenda approdare il populismo. Ammesso che lo sappia.

Inutile prendersela con i suoi corifei. Fanno il loro mestiere e gli riesce pure facile. I populisti mietono dove altri hanno seminato. Passano direttamente all’ incasso dei cascami di un “popolarismo” che mostra di non reggere la prova del tempo storico che viviamo. Il populismo, infatti, in ultima analisi, non è che un cattivo surrogato del popolarismo. O meglio una sorta di parassita che subentra laddove il “popolo” latita, come certi germi patogeni che si insediano nell’ organismo quando viene meno la flora batterica che fisiologicamente lo abita. Però attecchisce. Infatti, a suo modo, è accattivante.

In un mondo sgranato e confuso, instabile e tormentato, a tratti caotico, spesso indecifrabile, comunque mutevole ed impredicibile circa le sue possibili evoluzioni, cosicché viene percepito come destabilizzante e minaccioso, il populismo, in uno con la demagogia, consente, sia pure in modo rozzo e banale, superficiale ed ingannevole, eppure efficace, di contenere e gestire le nostre paure. Soprattutto, evitando che si trasformino in angosce. Il che è di straordinaria importanza sul piano della psicologia collettiva, non meno che sul piano individuale.

Noi siamo fatti per dare un senso alle cose e quando non ci riusciamo ci sentiamo insicuri, esposti all’alea di eventi fuori controllo che pure attraversano la nostra vita. Quando viene meno un orizzonte di valori, di attese e di speranze comuni, una storia condivisa, criteri di giudizio asseverati dal consenso della tradizione e della propria comunità di riferimento, il calore di una solidarietà rassicurante e diffusa, un sentimento di coesione sociale, cioè un insieme di coordinate che concorrono a dar ragione del mondo, basta poco perché, in mancanza d’ altro, in carenza di una ragionata e ragionevole comprensione degli eventi, ci si accontenti, appunto, piuttosto che niente, di una lettura “populista”. A quel punto, cioè, basta ventilare un complotto, accampare le mene dei poteri forti, gli gnomi della finanza ed i servizi segreti deviati, i maneggi delle spie, le complicità di ambienti oscuri e le connessioni incestuose con il terrorismo internazionale.

Se si è capaci di condire il tutto con un po’ di vittimismo, il gioco è fatto e, paradossalmente, quanto più la tesi suggerita è impensabile o addirittura stupefacente, tanto più sembra credibile e capace di spiegare l’arcano. Del tipo – fatte le debite proporzioni – che non è vero che l’uomo è andato sulla Luna o che l’ attacco alle Torri Gemelle l’ha organizzato la CIA.

Come si accennava sopra, la forza del populismo consiste nella sua, per quanto relativa e sghemba, capacità di aiutarci a gestire le nostre paure. Le quali, per quanto possano essere sofferte e tormentose, a differenza dell’angoscia sono pur sempre connesse ad un oggetto, ad una certa condizione, ad un evento, ad un che di reale e palpabile, che si conosce e si può, in qualche modo, contrastare o almeno contenere. Senonché, in carenza di un qualunque appiglio – possono bastare le boutade populiste – che dia conto di come stiano davvero le cose, si rischia di scivolare nell’angoscia, cioè in una paura disincarnata, “sine materia”, inafferrabile e, dunque, come tale molto più penetrante e pervasiva.

Insomma, i populisti sono imbonitori che, sulla piazza del mercato, vendono, spacciandole per un medicinale portentoso, boccette di acqua fresca che hanno il merito, finché dura, di funzionare come placebo. Ad ogni modo, frenare, interrompere o addirittura risalire la deriva populista non è facile. Lasciata al suo trend naturale scende giù, lungo una china fatale, verso una condizione di entropia sociale, cioè di crescente disordine e di costante dissipazione di energia.

C’è un solo rimedio: ristabilire gli snodi di una reale, forte, condivisa “dimensione popolare” della nostra vita civile.
E politica. Compete anche a quest’ ultima, anche alla politica spetta il compito. Superando le secche del bipolarismo, creando le condizioni di quella “coalizione popolare” di cui su queste pagine si è già accennato.

Domenico Galbiati

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