La questione delle concessioni balneari, dopo la recente sentenza del Consiglio di Stato, ha suscitato le prevedibili e forti rimostranze dei diretti interessati e le altrettanto prevedibili prese di posizione delle diverse aree partitiche,  favorevoli e contrarie, nonché il silenzio imbarazzato un po’ meno prevedibile, di molti politici che preferiscono “sfumare” le loro opinioni. Non c’è purtroppo alcun vero dibattito sulla questione, che pare condannata ad essere silenziata o a divenire materia di pura propaganda e scontro politico.

Ed è un peccato, perché in una discussione vera ed aperta, attenta ai contenuti concreti, tutti avremmo dei vantaggi da trarre. Ci accorgeremmo innanzitutto, riflettendo sul ricorso al diritto europeo presente nella sentenza,  che la costruzione dell’ Europa è un grande e stimolante, ma complicato, processo di costruzione istituzionale, in cui i pronunciamenti giudiziari hanno una rilevanza decisiva, tanto che si parla, sia pure con una qualche esagerazione, di una “Europa costruita per via giudiziaria” ( che comodità però per il legislatore farsi dettare le leggi dal sistema giudiziario! E che opportunità per realizzare “riforme impopolari” come pare, secondo le élite dirigenti,  debbano essere sempre le riforme “virtuose”, che dovrebbero consentire la panacea per i mali della società italiana!). E ci accorgeremmo anche di quale spazio è aperto dalla normativa europea  per ampliare e tutelare la nostra sfera giuridica, e di quanto spazio manca e quanti istituti sono carenti per consentire ai cittadini europei di realizzare quella solidarietà europea che pare oggi un sogno nell’ Europa che ritorna a costruire muraglie. Capiremmo ancor meglio perché il diritto non può nascere solo dalla giurisdizione, ma ha bisogno anche di legislazione e dottrina e quindi del contributo- sia pure mediato- dei semplici cittadini. Una riflessione questa tanto più interessante in un momento in cui si è lanciato il progetto di una conferenza sul futuro dell’ Europa.

La questione delle concessioni balneari non è,  come forse molti pensano, una prova di forza di alcune “lobbies”( intendendo come tali famiglie concessionarie di un bagno ! ) che resistono tenacemente ad un  mutamento dello status quo, appoggiate strumentalmente da alcune forze politiche. In questo caso viene in gioco molto altro. Questioni che riguardano tutti. Viene in rilievo intanto  il principio europeo  di concorrenza e la sua interazione con le politiche sociali, ad esempio.

La concorrenza, notoriamente, è un elemento centrale delle politiche europee ed un campo di azione  dai limiti sempre meno definibili per le istituzioni europee.  E nell’ambito della “concorrenza per il mercato”, cioè di quel settore di essa  che identifica le regole di diritto pubblico relative alla scelta del soggetto  che può erogare una determinata prestazione, le concessioni demaniali rappresentano certamente una tipologia rilevante. Le concessioni dei demani marittimi, col problema, specificamente italiano, del rinnovo delle concessioni da sottoporre a gara sono, come noto, uno spazio giuridico investito dai principi e dalle regole dei trattati euro-unitari, in particolare dall’art. 49 del TFUE ( libertà di stabilimento) oltre che degli artt. 56 ( libera circolazione dei servizi)  e 106 ( servizi di interesse economico generale) del Trattato,  nonché dalle direttive emanate dall’ UE, come la cd. Direttiva Bolkestein, ovvero Direttiva Servizi 2006/123/CE. Va precisato anche che norma del trattato e direttiva in questione concernono uno spazio in cui  l’ UE ha una competenza esclusiva, non concorrente con quella degli Stati, secondo l’art. 3  del TFUEla competenza che riguarda la “definizione delle regole di concorrenza necessarie al funzionamento del mercato interno”.

Non c’è dubbio quindi che ogni Stato membro si debba adeguare. E non c’è dubbio che le anomalie, le irregolarità,  le carenze, che certo caratterizzano la materia delle concessioni balneari nella situazione italiana, specie in certe aree, debbano essere rapidamente eliminate. Ma non è certo indifferente che il primato del diritto europeo ( da tempo riconosciuto dalla giurisprudenza UE) si affermi allargando l’area dei diritti goduti dai singoli o restringendo quell’area, come è nel caso delle tormentate concessioni demaniali, attorno alle quali il lunghissimo contenzioso apertosi dal 2006, non ha mai trovato una adeguata composizione a livello di legislazione italiana.

La concorrenza effettiva, che assicura le quattro libertà di circolazione ( persone, servizi, merci e capitali) certo è essenziale per il funzionamento del mercato. Ma nessuno Stato può vivere di “solo mercato”. E neppure l’ UE può farlo, come ha dimostrato la pandemia, che ha spinto alla introduzione di misure “innovative” configuranti politiche economiche attive ( e non mere regolazioni mercatiste ) come il Next generation EU e, ancor prima, alcune deroghe ai divieti di aiuti di Stato. Misure, va detto, considerate come temporanee ed eccezionali, quasi l’ UE dovesse agire in positivo solo per contrastare le crisi, non per progettare senza urgenze pressanti il proprio futuro. E certamente con la concorrenza hanno a che fare le concessioni demaniali italiane. Ma le concessioni demaniali non hanno a che fare solo con essa. Le esigenze della concorrenza e della libertà di stabilimento, devono essere, “bilanciate” con molto altro, come la stessa  Corte del Lussemburgo ha precisato nelle sue sentenze e nella risposta alle pregiudiziali a lei sottoposte. La stessa Direttiva Bolkestein prevede al comma 3 dell’art. 12,  che impone le gare di appalto per la selezione del beneficiario, che in ogni singolo Stato possa tener conto “di  considerazioni di salute pubblica, di obiettivi di politica sociale, della salute e della sicurezza dei lavoratori dipendenti ed autonomi, della protezione dell’ambiente, della salvaguardia del patrimonio culturale e di altri motivi imperativi d’interesse generale conformi al diritto comunitario”. Ed evidentemente nel caso italiano ci sarà da tener conto,  nell’organizzare la selezione dei concorrenti , che la innovazione del turismo balneare introdotta in Italia più di un secolo fa è qualcosa di radicato profondamente nella nostra cultura, nelle nostre tradizioni, persino nel nostro paesaggio.  Starà perciò alla legge nazionale dettagliare e concretizzare le linee generali di una Direttiva, che non si vede proprio come possano, nel caso specifico,  ritenersi auto-applicative ( self executing) e quindi sufficienti a consentire, in carenza di una normativa di trasposizione, oltre la disapplicazione della norma anti-europea anche l’applicazione in positivo di una adeguata disciplina normativa.

Se la gara per la scelta del “migliore” è obbligatoria, è evidente che una serie di elementi centrali, durata della concessione, selezione e valutazione dei requisiti dei concorrenti,  tutela di interessi sociali, eco-sostenibilità della medesima, ed evidentemente regime di transizione da un sistema concessorio ad uno autorizzatorio, sono liberamente determinabili da parte dello Stato membro, e sono cioè sua propria competenza, ovviamente entro i confini di una leale collaborazione con l’ UE. Dopo la sentenza del C. di Stato, la legge dello Stato italiano , una nuova legge,  evidentemente diversa da quella del 2018, dovrà farsi carico di tutto il problema.

E la sentenza fornisce interessanti spunti di riflessione. Tra gli elementi di “contestazione” verso la normativa europea che il Consiglio di di Stato intende controbattere  c’è la “lettura europea” delle qualificazioni giuridiche come quella di  contratto di concessione di beni demaniali. Le “concessioni di beni demaniali” sono semplicemente equiparate a “autorizzazioni di servizi” come è necessario fare se si ritiene che esse rientrino nella Direttiva Servizi o Bolkestein.  E’ vero che il signor Bolkestein direttamente e personalmente ebbe a smentire questa identificazione, come politico certo, non con l’autorità del giurista, qualche anno fa e davanti ad una assemblea di rappresentanti dei balneari.  Ma  la questione esiste e forse dovrebbe essere portata all’attenzione dei giuristi e dei politici  oggi. Gli estensori della Sentenza del C. di Stato hanno infatti toccato il punto in un passaggio centrale della loro argomentazione, proponendo una rilettura degli elementi fondativi delle fattispecie. Si afferma infatti a pagina 23 della Sentenza del Consiglio di Stato,

“Tale impostazione ( quella per cui “la concessione attribuisce il bene, rectius il diritto di sfruttarlo, ma non autorizza l’esercizio dell’attività ) risulta meramente formalistica, perché valorizza la distinzione , propria del diritto nazionale, tra concessione di beni ( coma atto con effetti  costitutivi/traslativi che attribuisce un diritto nuovo su un’area demaniale) e autorizzazione di attività  ( come atto che si limita  a rimuovere un limite all’esercizio di un diritto preesistente). Questa distinzione  di stampo giuridico-formale deve essere rivisitata nell’ottica funzionale e pragmatica che caratterizza il diritto dell’ Unione che da tempo proprio in materia di concessioni amministrative ha dato impulso a un processo di rilettura dell’ istituto in chiave sostanzialistica , attenta, più che ai profili giuridico-formali, all’ effetto economico del provvedimento di concessione, il quale, nella misura in cui  si traduce nell’attribuzione del diritto di sfruttare  in via esclusiva una risorsa naturale contingentata  al fine di svolgere un’attività economica, diventa una fattispecie  che  a prescindere dalla qualificazione giuridica che riceve nell’ambito dell’ordinamento  nazionale, procura al titolare vantaggi economicamente rilevanti  in grado di incidere sensibilmente  sull’ assetto concorrenziale del mercato e sulla libera circolazione dei servizi”

Perché il diritto giurisprudenziale europeo parla non di concessione ma di autorizzazione ? Quale è il senso del cambiamento? Evidentemente nell’ottica “funzionale e pragmatica” del diritto UE la concessione amministrativa di un bene può essere identificata nella autorizzazione di un “servizio”, (che è nel “linguaggio europeo”  una “prestazione fornita normalmente dietro retribuzione”),  a prescindere dalla sua qualificazione giuridica nel linguaggio del diritto nazionale, per il semplice motivo che uno dei suoi effetti è quello di incidere sensibilmente su concorrenza e mercato. Lasciando evidentemente da parte il fatto che alla base di una concessione vi è una reciprocità di diritti e obblighi e talora anche una volontà di indirizzo dell’attività che certo non rientra nella qualificazione della autorizzazione e sia pure una autorizzazione conforme,   in cui invece non rileva il rapporto di durata o la connessione  con un pubblico interesse.  Il rilievo che la fattispecie assume in relazione alla concorrenza finisce così per de-quotare la componente relazionale della fattispecie, a partire da obblighi e vincoli reciproci ( come dimostra la presenza di un articolo , il 49 del Codice della navigazione, tuttora vigente, che impone un pesantissimo vincolo, escludendo la rimborsabilità o il compenso per le costruzioni non amovibili fatte sull’area in “concessione”).

La nuova qualificazione giuridica “globalizza” per così dire questa  realtà contrattuale, assegna all’effetto economico il potere di qualificare la relazione,  sfumando la distinzione tra istituti costitutivamente e strutturalmente diversi. La concorrenza finisce così per riconfigurare il diritto in funzione di una sua utilizzazione funzionale, grazie alla quale si valorizza l’elemento unificante ( il mercato e la concorrenza) e passano in secondo piano le componenti strutturali ( la reciprocità di doveri ed obblighi tra pubblico e privato). E’ una qualificazione che opera una modifica rispondente a bisogni che non sono filtrati da una rappresentanza parlamentare ( e quindi da una legge espressione di una vera rappresentanza), ma sono rilevati tramite valutazioni che privilegiano il funzionamento del mercato. Una qualificazione che opera come una normativa che “piove dall’alto” sui cittadini, esattamente come quella prodotta dalle law firm che formulano la nuova lex mercatoria che domina le legislazioni nazionali, trascurando ciò che c’è alle radici. C’è dunque un principio di concorrenza che riconfigura il diritto degli Stati.

E’ per questo che la questione della concorrenza è questione centrale: essa non riguarda solo le spiagge, gli ambulanti i tassisti, i servizi, le merci e i capitali, ma riguarda il futuro dell’ Europa. Di fronte alla crescente e discorde molteplicità delle norme, ed alla casualità e imprevedibilità  delle decisioni politiche, nell’ Europa di oggi l’unità necessaria sempre più per stare sulla scena mondiale, come anche per affrontare seriamente il problema ecologico, può essere solo una unità di scopi, quell’unità che spesso chiamiamo solidarietà, ma che pare impossibile o difficilissimo da realizzare con politiche attive comuni in singoli settori, magari settori limitati ma strategici ( un tempo il carbone e l’acciaio, oggi il problema pandemico, quello ecologico, quello energetico …).   Ed allora si finisce per aggirare la questione. Si prova a perseguire il coordinamento degli scopi in altri modi, utilizzando la oggettiva funzionalità unificante del mercato,  ( quasi una concorrenza what ever it takes) , espressa in un diritto che occupa spazi sempre più astratti e indefiniti e che punta su razionalità tecnica e  oggettiva calcolabilità. Si fa una operazione che sostituisce al binomio diritto-territorio il binomio tecnica-spazio che de-territorializza le persone e fragilizza le comunità umane, rendendole “liquide” e tra loro rapidamente intercambiabili. Una operazione che forse è anche l’effetto della “via ( esclusivamente) giudiziaria” all’ Europa, una via  che si costruisce cercando la coerenza dell’ ordinamento e che privilegia i principi unificanti( come quelli concorrenziali), sacrificando magari la concretezza delle varianti sociali che ha bisogno della tutela di un legislatore, laddove non si tratti di principi inderogabili.

C’è infatti un diritto che pare a molti ( oltre a Friedrich Von Hayek che lo ha teorizzato) un  presunto diritto “migliore”, un diritto giurisprudenziale che mira ad elaborare norme di giusta condotta senza esprimere alcun fine particolare, come fa invece il diritto di origine legislativa, che  è, evidentemente, in quest’ottica,  un “diritto peggiore”. In realtà si tratta di una distinzione  assurda, ma adeguata talvolta a caratterizzare il diritto euro-unitario. Ma un diritto astratto e disincarnato in realtà non può unificare  l’ Europa, piuttosto la de-solidarizza e la sfilaccia, fa venir meno quella connessione tra democrazia ed economia che è data dalla concreta dimensione sociale, che i padri fondatori dell’ Europa avevano ben presente.

Ed è questa- il diritto astratto- la prospettiva che dovrebbe esser vista sempre più come inaccettabile dopo la pandemia e  l’esplodere della crisi ecologica, che ci hanno consentito di toccare con mano i pericoli che si determinano proprio quando adottiamo l’idea di un progresso che tutto può trasformare in merce , incluse la natura e la biosfera umana, e accettiamo l’idea di una società che non si fonda su alcun fine comune, ma solo sulla tutela degli interessi e degli individui e della loro indeterminata e casuale libertà di movimento e della illimitata concorrenza.

La concorrenza infatti non può essere considerata  come causa di per sé della instaurazione di relazioni sociali giuste e ordinate Per questo puntare  solo su concorrenza e mercato come leva principale o unica per “riformare” l’ Italia è una scelta illusoria e, al tempo stesso,  autolesionista.  Può servire magari ad una “ripartenza” che significhi fare tutto come prima della pandemia.  Ma non si era detto di voler cambiare? Non si era detto “che niente sarebbe stato più come prima”? In conclusione potremmo dire che la concorrenza, quella vera, è essenziale – nessuno meglio di noi italiani- può dirlo, notando quella che manca quando andiamo a pagare le bollette del gas o della luce che erano e resteranno le più care d’ Europa, o quando ci aspetteremmo una selezione dei migliori nei servizi pubblici destinati alla “cura” delle persone, come la sanità, la scuola, la giustizia. Essa però può essere solo  l’effetto positivo di una Giustizia che la precede e la determina. La concorrenza è perciò essenziale se è usata come un mezzo per conseguire altre finalità cui essa si subordina, non se è usata come un fine, come una sorta di  “pilota automatico” o come la “mano invisibile” che deve dare ordine al mondo. Non è il caso allora di ripensare bene il principio di concorrenza europeo e di metterlo all’ordine del giorno nella discussione sul futuro dell’ Europa? La concorrenza insomma non può essere il benchmark decisivo e unico di ogni progresso civile.

Umberto Baldocchi

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