Il livore, la rabbia, il rancore sordo – taluni ritengono sia addirittura odio – insomma il sentimento di inimicizia e di ostilita’, di diffidenza reciproca che oggi predomina e si accompagna a paure inconsulte, da dove origina?
Nella vulgata della polemica politica corrente, in genere, tutto cio’ si fa risalire al timore del “diverso”, dunque, anzitutto, dell’ immigrato – il diverso per eccellenza – ed alla demonizzazione leghista del fenomeno migratorio, al populismo da straccioni imbracciato da Salvini.
Uno che in cuor suo continua evidentemente a disprezzare l’Italia e gli italiani, esattamente come faceva la Lega secessionista, se non sa far altro che proporre una sorta di “nazionalismo sovranista” impastato di sentimenti deteriori, antitetici alla sensibita’ morale, alla passione civile, alla finezza culturale ed alla storia di un Paese che, a dispetto delle sue difficoltà, continua ad essere un ineguagliabile faro di civiltà.
E’ un’ Italia irriconoscibile che dovrebbe vergognarsi di se stessa quella che risulta dalla narrazione salviniana.
Ma siamo sicuri che la nostra analisi può fermarsi qui? E’ lecito coltivare almeno il dubbio che la dottrina leghista sia così invadente e pervasiva perché avanza su un terreno già dissodato e predisposto ad accogliere il seme velenoso dell’odio? Non è forse vero che la coscienza di appartenere ad un orizzonte di senso comune, i sentimenti di fiducia e di reciprocità, insomma i fattori di coesione sociale sono da tempo corrosi, come fossimo tutti animati da un inconfessabile e reciproco sospetto, timorosi di una invadenza da parte dell’ “altro”, anzi dell’ “alieno” che ci rende guardinghi, ci pone pregiudizialmente sulla difensiva, cosicche’ la freddezza, l’allentamento del vincolo sociale, la fuga nell’anomia, nella omologazione diventano strategie difensive di un “io” che si sente perennemente minacciato?
Ovviamente tutto ciò va oltre la politica e non può esserle semplicisticamente imputato, ma la politica pur vi concorre; se non altro perché asseconda una tale deriva o addirittura ci investe sopra.
Non è forse vero, se guardiamo alla politica italiana degli ultimi trent’anni, alla cultura che più o meno consapevolmente vi è stata sottesa, che destra e sinistra – pur fieramente attestate l’una contro l’altra nella quotidiana controversia politica – hanno mostrato un tratto comune, hanno coltivato insieme, e pur con modalità differenti, una condivisa e greve interpretazione “individualista” della convivenza civile?
A destra nelle forme di una enfatizzazione dell’ interesse particolare di ciascuno, del successo e dell’affermazione personale come prevalente criterio di giudizio, della competizione come metro di valore, quindi dentro una logica liberale solo a parole, di fatto esasperata e conflittuale.
A sinistra, nelle forme di una rivendicazione cocciuta dei cosiddetti “diritti civili” che dell’ individualismo rappresentano l’apoteosi, al punto che la sinistra ha assunto, per molti aspetti, la fisionomia di apparato radicale di massa.
A maggior ragione, i cattolici – al di là do ogni aggettivazione che, oltre un certo limite, finisce per essere impropria, siano “democratici”, piuttosto che “popolari” o “liberali” – devono rivendicare la loro autonomia e rappresentare un possibile punto di riferimento e di svolta, nel senso di quella strategia che, oltre il classico e tradizionale riformismo, punta a quella “trasformazione” cui allude il nostro Manifesto, avviando dopo la lunga e fredda stagione dei “diritti civili”, una nuova primavera di “diritti sociali”.
Domenico Galbiati