Il Rapporto Censis – il cinquantatreesimo della serie – è’ come sempre ricco di dati e di analisi che danno una rappresentazione efficace della condizione generale del Paese e soprattutto è penetrante nella sintesi che quest’anno esita in un giudizio convincente che corrisponde ad una percezione diffusa: l’incertezza èil sentimento dominante nel vissuto della larga maggioranza degli italiani.
Tre dati che si evincono dal Rapporto, per quanto apparentemente non connessi, mostrano, al contrario, una similarità significativa:
*il consumo di ansiolitici e sedativi, dal 2015 ad oggi, è aumentato del 23%. Fanno uso di questi farmaci circa 4,4 milioni di italiani, con un incremento, nel triennio indicato, di 800.000 persone in terapia;
*il 55% degli intervistati dichiara di parlare da solo in auto o a casa;
*un’ ampia fascia di coloro che si dichiarano stressati dicono di non conoscere il motivo di tale condizione.
Si direbbe una sorta di strisciante disagio di carattere “essenziale”; cioè un rumore di fondo intrinseco e fastidioso, come di un meccanismo che si inceppa e stride. A parlar da soli, in fondo, non c’è niente di male; non è necessariamente un sintomo patologico, ma non è neppure indicativo di una robusta tenuta emozionale.
L’ansia poi è spesso la spia di una sofferenza più sottile. Per lo più segnala ed accompagna una depressione dell’umore che fin da quando è appena incipiente, ed ancora non del tutto clinicamente manifesta, già ricade pesantemente, inquieta e rattrista i contesti in cui il soggetto “incriminato” vive, a cominciare ovviamente dalla famiglia.
In genere, noi guardiamo a questi fenomeni di disadattamento e di fragilita’, di “incertezza”, così come li tipizza il Censis nel loro insieme, con uno sguardo che, di volta in volta, ne focalizza un aspetto, ma non ne coglie altrettanto bene il continuum. Anche in quanto osservatori, senza volerlo, assumiamo a monte quella stessa logica del frammento che poi puntualmente riscontriamo a valle nel fenomeno che mettiamo allo studio.
Su un versante discutiamo questa condizione di precarietà in funzione del contesto sociale e collettivo in cui si inscrive; altro è l’orizzonte tematico entro osserviamo le mille debordanti difficoltà che attestano la profonda sofferenza dei contesti familiari. Per lo più trascuriamo il nesso stringente tra questi due profili. In realtà, l’ “incertezza” che pervade il contesto sociale ricade spesso nelle famiglie in termini di instabilità affettiva.
Questa, a sua volta, genera onde sismiche che inducono disarmonie e tensioni che inevitabilmente si scaricano sull’ anello debole della catena, cioè sui minori.
Dovremmo integrare il paradigma da sempre in uso, secondo cui distiguiamo tra cosiddetto “sesso forte” e “sesso debole” e, nell’attuale contesto, accompagnarlo con un modello aggiuntivo – ed oggi forse perfino più espressivo – che opponga le “età forti” e le “età deboli” della vita. Anche questa è, a suo modo, una “trasformazione”, anzitutto del nostro sguardo e meno banale di quanto possa apparire.
Soprattutto, non è una notazione di carattere descrittivo e sociologico, bensì, del nostro tempo, una lettura prettamente “politica” che, cioè ha molto a che vedere con la forma che intendiamo imprimere alla polis. E c’entra pure con il nostro programma. Rappresenta una di quelle nuove chiavi interpretative che, tagliando trasversalmente le canne d’organo dei temi programmatici da approfondire, cercano di trarne un succo inedito e piu penetrante.
E’ talmente facile che, con un gioco di parole, si potrebbe dire come ferire un bambino sia un gioco da ragazzi.
Ci sono pazienti che fanno risalire la prima origine del loro disagio psichico ad un particolare e specifico episodio della loro vita infantile e colpisce l’apparente sproporzione tra un evento così circoscritto e la sequela di sofferenze cui avrebbe dato il via.
Spesso si tratta di una supposizione indebita, ma è comunque significativo il comparire di una simile proiezione retrograda.
Del resto, con la passione di Cristo, forse la pagina più cruda del Vangeli è quel passo di Matteo in cui il Signore dice che per chi scandalizza un bambino sarebbe meglio mettersi al collo una macina e sprofondare negli abissi del mare.
In fondo, sì: la passione di Cristo e la passione dei troppi bambini che sacrifichiamo ai fantasmi ed agli idoli del nostro benessere.
E tutto ciò, questo tentativo di portare al cuore delle nostre riflessioni le età minori della vita, beninteso, non è buonismo: è, nel senso forte del termine, “politica”.
Domenico Galbiati