Salvini, rinviato a processo per la vicenda Open Arms, deve necessariamente fare buon viso a cattivo gioco. Non potrebbe recitare un altro copione, ma c’è da credere che sia anche sincero.
Stava scivolando ai margini del ring, chiuso nell’angolo degli errori che ha inanellato da un anno a questa parte, al punto che non c’era da sorprendersi che nella stessa Lega qualcuno cominciasse seriamente a chiedersi se il Capitano non si stesse rivelando di fatto un bluff ed avesse, ad ogni modo, ormai il fiatone, talchè perfino la Meloni potesse permettersi di rubargli la scena. Ora gli arriva tra capo e collo una inaspettata botta di vita che intanto, almeno formalmente, ricompatta i suoi e soprattutto gli offre l’opportunità di recitare la parte sofferta dell’eroe ferito nella pugna dell’eterno psicodramma in cui la seconda o terza repubblica che sia hanno trasformato la politica italiana.
Per ben che si dica della Legge Severino e per quanto, ovviamente, politica e giustizia abbiano molto a che vedere, si rischia di essere risucchiati, pur senza volerlo, in una logica giustizialista se non si ha chiara consapevolezza della necessaria contiguità, ma pure della fisiologica afferenza di ognuno dei due campi a regole proprie.
Una politica popolata da guitti e saltimbanchi, in cui uno slogan – ancora più un insulto o un’invettiva – vale più di un ragionamento, l’immagine la vince di gran lunga sul concetto, le ruspe, i bazooka ed i lanciafiamme e i tamburi di latta rendono immediatamente l’idea della metallica, inossidabile fermezza del leader di giornata.
Ogni qual volta – sia o meno Salvini al centro della scena – un atto comunque ascrivibile al campo della politica, viene sottoposto ad una valutazione di carattere giudiziario, si scatena, in vista del voto parlamentare relativo al l’autorizzazione a precedere, uno spettacolo poco edificante fatto di annunci e ritrattazioni, inversioni di rotta e colpi di scena strumentali, ricatti palesi od occulti, voltafaccia improvvisi ed orientamenti dettati dalla convenienza politica del momento e, dunque, contraddittori delle granitiche certezze morali espresse in altri momenti.
Insomma, viene alla luce, con più immediata evidenza, un’invincibile ipocrisia di fondo che la dice lunga sulla debolezza intrinseca di un arco politico- parlamentare che, mai come in questo momento, dovrebbe parlare il linguaggio della franchezza e della verità.
Per quanto a parole tutti condannino il giustizialismo, in effetti, di volta in volta, torna comodo a tutti, agli uni ed agli altri, delegare al piano giudiziario il compito di regolare i conti , piuttosto che affrontare le questioni politiche sul piano proprio della controversia e del confronto politica.
La giustizia faccia la sua parte, ma altrettanto faccia la politica. Ad esempio, nel campo specifico del fenomeno migratorio, cosa si aspetta a porre mano ai cosiddetti “decreti sicurezza”? Infatti, per quanto ci riguarda, ciò che più conta è evitare che un tema terribilmente serio come quello delle migrazioni, anzichè essere affrontato
nella consapevolezza del valore umano che mette in gioco, venga strumentalizzato a banali ragioni di propaganda.
Domenico Galbiati

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