E’ noto come tutti gli esseri viventi, Uomo compreso, hanno una istintuale spirito di sopravvivenza che li
spinge a lottare per conservare la vita: a molti sarà capitato di avere reazioni istintive molto forti se ad esempio qualcosa impedisce di respirare correttamente. Come mai questo istinto di sopravvivenza si tramuta in desiderio di morte, al punto da invocare il diritto ad essere assistiti nel procurarsi la morte?
Il dolore intenso, continuo, senza requie e senza possibilità di rimedio può generare il desiderio di morte, al punto da farla invocare e cercarla attivamente: l’efferata pratica della tortura, nel corso dei millenni, ha dato orrida testimonianza di questa possibilità. Anche il dolore inteso e continuo derivante dalle malattie può portare a far invocare la morte: per fortuna, le capacità di alleviare e anche togliere il dolore sono diventate prassi diffuse nella moderna medicina a disposizione dell’uomo contemporaneo.
C’è una altra condizione, quella della sofferenza, che si nutre del dolore, ma che può esistere anche senza forme di dolore fisico particolarmente significativo e che anzi può esistere anche senza dolore, e che può portare la persona a desiderare e invocare la morte. La sofferenza è una esperienza drammatica, esperita in piena consapevolezza che, quando intensa e prolungata, toglie orizzonte alla speranza e precipita l’essere umano nella disperazione senza via d’uscita. E’ ad un tempo esperienza personale e sociale: è espressione della storia e della personalità di ciascuno di
noi, ma è anche espressione della cultura e del contesto sociale in cui la persona vive: e in un mondo globalizzato, la cultura si fa liquida e il contesto sociale di riferimento, allargatosi a dismisura, e pervasivamente invasivo, influenza facilmente i nostri giudizi e la nostra percezione della vita. Per il dolore ci sono potenti rimedi al “gran bazar” della sanità occidentale: la sofferenza di una persona non ha rimedi taumaturgici e per poterla superare o almeno tollerare è necessaria una attiva partecipazione del contesto: quello della famiglia, ma anche quello di prossimità. Famiglia e contesto di prossimità possono agire solo se le diverse forme del vivere sociale che rendono possibile e regolano la vita di ciascuno di noi rendono lecito e possibile il loro agire: la dinamica della interdipendenza e della complessità.
Ciascuno di noi ha dentro di sé, in maniera naturale, la capacità di provare compassione, di esperire dentro di noi la sofferenza dell’altro, intensa emozione che ci spinge a cercare di porvi rimedio o di lenirla, e almeno non lasciare da solo chi è nella sofferenza. L’architettura sociale che governa il vivere delle moltitudini dovrebbe rendere possibile a tutti l’espressione di queste naturali inclinazioni: o almeno non renderle esercizio di virtù eroiche. Agire volontariamente l’eutanasia, che è ben altro che invocare la morte nei momenti più neri di sconforto esperienza che anche profeti “professionisti” come ad esempio Giona, hanno vissuto e testimoniato, è atto di sconvolgente e drammatica disperazione e al tempo stesso atto di accusa verso ciascuno di noi, assenti, distanti, distratti, lontani.
Agire un gesto così lontano dalla nostra istintuale naturalità è un percorso che si costruisce lungamente nel tempo, dopo aver vissuto a lungo in contesti poveri di condivisa umanità: tutti i comportamenti umani sono sicuramente il frutto di scelte individuali, ma molteplici sono i fattori sociali che li influenzano e che agiscono come fattori di protezione o di rischio.
La religiosità è un fattore di protezione, in quanto colloca la persona all’interno di un orizzonte che trascende il limite contingente della durata della vita e offre così uno spiraglio alla disperazione quando non ci sono vie di uscita nell’immediato. Al contrario una cultura che espunge la religiosità o la confina nel segreto del cuore dell’individuo, negando che possa essere una lecita espressione di quell’istintuale componente spirituale propria di ogni vivente, e
restringe l’orizzonte di senso all’interno della sola durata di ogni singola vita, è un potente fattore di rischio: la vita diventata valore immanente assoluto, fatalmente trova dei qualificatori –qualità della vita, dignità, felicità, utilità – la cui mancanza ne giustifica la soppressione.
Testimoniare la bellezza della propria fede, specie quella cristiana così radicata nella sua escatologia trascendente, è potente antidoto contro il dramma di una azione eutanasica. Vivere in un contesto sociale che ha fatto della competitività il valore fondante dei rapporti sociali è un indubitabile fattore di rischio: competere per conquistare sempre “nuove fette di mercato” o rendite finanziarie sempre più performanti, competere per vincere progetti di ricerca o più semplicemente per essere assunti, o ancora per essere ammessi a corsi di studi…. Di per sé nulla di male: anzi, è un comportamento molto umano. Quando però la “meritocrazia” è “il” paradigma di riferimento, cui tutto si piega, fatalmente aumentano gli “ultimi”, cui guardare con superiore indulgenza…quando si vince… Per superare il timore di poter essere sconfitti e diventare marginali, tutti sanno che devono “vincere” sempre
ad ogni costo, e qualche volta anche con ogni mezzo.
Quando nella nostra vita personale si affaccia una condizione di malattia non modificabile o addirittura senza
rimedio, la sofferenza diventa ben presto disperazione: in una società meritocratica che idolatra la vita non
c’è molto spazio per i “perdenti” condannati a subire la condizione del vivere. Che senso ha la vita quando non ci sono prospettive di miglioramento? E se la condizione è generata da una malattia inguaribile e dolorosa perché continuare a vivere? Un importante fattore protettivo sono le relazioni di amicizia: non tolgono certo il dolore e la sofferenza, ma aumentano la soglia di capacità di tollerare la condizione di sofferenza.
Deve essere però amicizia vera e profonda, una “agape fraterna” pronta a “dare la vita” per l’amico: sacrificare il proprio tempo per stare accanto all’altro, rinunciare alle proprie priorità se l’amico ha bisogno di noi, vivere la propria prossimità nella quotidianità: e chi soffre ha un bisogno enorme dell’altro, quotidianamente. Una dimensione che facilita questa prossimità, è la condizione famigliare: non è l’unica, ma una famiglia dove i vari protagonisti hanno imparato giorno dopo giorno a mettere l’altro davanti al proprio interesse può facilitare lo sviluppo di quel sentimento di “agape” che porta a mettere l’altro davanti a tutto, specie se sofferente e bisognoso di aiuto. Non è scontato che tutte le famiglie riescano ad essere una simile palestra.
Un contesto sociale che fonda la vita famigliare solo sulla dimensione emozionale e sulla reciproca convenienza è invece un fattore di rischio per la scelta eutanasica: una relazione di prossimità fondata sulla contingente convenienza addestra a dover contare solo sulle proprie forze per fronteggiare ogni evenienza. Quando la grave malattia e la sofferenza ci colpiscono e non abbiamo più le forze per gestire la situazione, la angoscia dilaga in ogni momento del vivere. Favorire l’istituto famigliare con leggi che almeno non penalizzino la vita di comunità e di condivisione, per dare tempo ai singoli componenti di apprendere la bellezza di una agape fraterna, non è una condizione di privilegio dettata da scelte morali, ma solo una azione di buona politica attenta ai diritti di tutti : come
conciliare i diritti individuali, su cui sono fondate legittimamente le burocrazie pubbliche, con i diritti di una
comunità di persone – la famiglia – che deve trovare una forma di visibilità anche burocratica, almeno
equivalente, è un sfida politica e culturale di grande importanza, che non deve essere disgiunta dalla azione
di tutela sui redditi famigliari: l’assegno unico per i figli, primo timido passo di attenzione alla famiglia,
slegato da una politica complessiva di rispetto della famiglia naturale, rischia di essere poco meno che
l’equivalente del reddito di cittadinanza …“formato famiglia”….
Un servizio socio-sanitario ben organizzato è un fattore di protezione verso la deriva eutanasica. Accompagnare e sostenere la persona sofferente, è il caso dei malati con patologie croniche ad alto impatto assistenziale, è compito fondamentale di un Servizio Sanitario a copertura universale: tutti i cittadini devono essere assistiti, ma se c’è una priorità questa deve essere a favore delle condizioni di alta sofferenza. Un servizio sanitario organizzato sulle “prestazioni” e vincolato ad un equilibrio economico costruito su un modello di efficientismo aziendale è al contrario un grave fattore di rischio: l’accompagnamento del malato sofferente, oltre alla necessità di una competenza tecnica ineccepibile, si fonda sull’ascolto, sulla prossimità, sulla capacità di costruire attorno al malato una rete di relazioni in grado di non farlo mai sentire solo. I tempi di questa azione di prossimità sono diversi in relazione alla condizione della persona sofferente, delle risorse del contesto, di contingenze interferenti mai prevedibili: una organizzazione fondata sulla remunerazione di singole prestazioni, sempre più spezzettate in sotto-processi e procedure da
monitorare ossessivamente, ostacola nei fatti il processo assistenziale e lascia le persone nella angosciosa solitudine.
Assistere chi è nella condizione di grave sofferenza non è attività “modellizzabile” sulle logiche “fordiste” delle aziende manifatturiere….
Organizzare un servizio sanitario territoriale che si fondi su paradigmi completamente differenti da quelli attuali, capace di valorizzare anche il contributo delle famiglie o della rete di prossimità, che abbia nella valutazione di outcome socio-assistenziali correttamente intesi la bussola su cui misurare la sua capacità di risposta, è fattore protettivo verso il dramma dell’eutanasia: ad oggi il nostro SSN non ha nessun indicatore degli outcome socio-assistenziale, ma solo indicatori econometrici, quando usati. E’ di pochi giorni fa la conclusione dei lavori della commissione parlamentare che ha strutturato un articolato per disciplinare sul piano legislativo l’eutanasia: è solo una bozza, non particolarmente illuminata e costruita anche peggio. Ci sarebbe da discutere su tutti gli articoli, nel merito anche giuridico.
La questione è però, prima ancora che giuridica e etica, sostanzialmente politica. Un Parlamento che ha a cuore il bene comune e i diritti delle persone dovrebbe prima almeno riformare il SSN, legiferare contro ogni forma di discriminazione verso la famiglia, varare norme che sappiano incentivare e riconoscere, anche sul piano economico, le azioni di prossimità svolte in favore delle persone offerenti, all’interno di una progettualità di presa in carico da parte del SSN, competente professionalmente, ma capace di attivare le energie sociali di prossimità.
In una società laica, è comprensibile che ci siano alcuni componenti che liberamente scelgono di vivere nell’orizzonte dell’immanenza contingente e che giudichino la loro vita non degna di essere vissuta in presenza di particolari condizioni e condizionamenti: e in un società plurale anche questi orientamenti vanno accolti, con prudente ponderazione nel rispetto dei principi costituzionali, ma prima è necessario e urgente occuparsi di rimuovere le tante cause che fanno vivere la sofferenza con angosciosa disperazione.
Cattolici del sociale contro cattolici della morale? Semplicemente INSIEME! Situazioni complesse, difficili equilibri da trovare: è il compito della Politica che cerca il confronto con tutti per individuare pazientemente una mediazione rispettosa delle tante sfaccettature di una realtà complessa come quella in cui viviamo, sapendo che solo una visione complessiva e coerente può favorire lo sviluppo di una società dove ci sia rispetto per le istanze di tutti, senza prevaricazioni.
Buone leggi, tra loro coerenti, rendono il ricorso alla Giustizia, l’eccezione e non la regola. Difendere il diritto alla eutanasia e non occuparsi di difendere i diritti umani di chi vuole vivere secondo natura in una circolarità relazionale e di prossimità, è solo l’ennesima capitolazione di fronte allo strapotere delle elite finanziare che necessitano di un mondo di persone sole, affamate di “oggetti” in cui affogare la propria disumana condizione di dipendenza: da scaricare, quando non servono più, in una atmosfera ovattata, secondo procedure ben codificate e di qualità: rigorosamente certificate, of course.
Massimo Molteni

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