Il tempo e l’ascolto necessità della democrazia
In una fase storica in cui persino le più alte autorità della politica italiana ribadiscono che la politica, in tempi di straordinaria emergenza, ha bisogno di rapidità e immediatezza delle decisioni, ed in cui assistiamo esterrefatti al succedersi vertiginoso degli “ordini esecutivi” del presidente Trump ( ordini che poi talvolta vengono improvvisamente rovesciati) c’è chi ha affermato, serenamente e placidamente, che “LA DEMOCRAZIA HA BISOGNO DEL TEMPO E DELL’ ASCOLTO” e che “LA LENTEZZA E’ UN VALORE DELLA DEMOCRAZIA PERCHE’ CONSENTE ALLA COMUNITA DI ASCOLTARE”.
Si tratta di frasi che ho estratto, spero non impropriamente, dall’intervista di Fabio Fazio ad Ernesto Maria Ruffini in occasione della presentazione del libro di Ruffini, PIU UNO, avvenuta in data 25 marzo nella rubrica TV Che tempo che fa
E se fosse davvero così? E se fosse che la democrazia soffrisse per mancanza di tempo e non per eccessiva lentezza delle procedure? E se il disastro nascesse proprio da quella accelerazione imposta alla politica per metterla al passo velocissimo dell’economia?
Qualcuno forse da tempo sta sospettando che i problemi della democrazia non derivino affatto dal non conoscere chi sia il “vincitore” la sera stessa del voto. Anche perché in Italia le cose sono peggiorate nella misura in cui questa situazione, tanto sponsorizzata da uno dei più bizzarri politici italiani, si è realizzata.
Credo che il dott. Ernesto Maria Ruffini abbia toccato un punto essenziale dei caratteri della democrazia italiana (e non solo) e quindi anche dalla sua crisi attuale. E credo che forse sia possibile una sua trasformazione radicale, attraverso la mitezza, come in una sorta di “rivoluzione di velluto”, per riprendere un termine usato qualche decennio fa.
L’ “architettura” del tempo e la vera rappresentanza democratica
Che il tempo sia elemento essenziale nella costruzione della democrazia è un concetto che fu affermato con chiarezza dai padri costituenti americani nella Convenzione di Filadelfia e poi nella Costituzione federale del 1787, che contiene una sapiente “architettura” del tempo, che regola sapientemente da oltre due secoli le cadenze dei meccanismi di formazione degli organi dei tre poteri dello Stato. Chissà se ne sono consapevoli le attuali élites dirigenti degli USA.
La stessa idea della rappresentanza politica (un’idea sconosciuta alla democrazia e alla politica degli antichi ed il cuore stesso della discussione dei costituenti americani nel 1787), intesa come moderazione della volontà immediata ed estemporanea del popolo, pone l’esigenza del tempo necessario alle assemblee per la discussione, per il confronto dialettico e per il compromesso tra interessi diversi, e serve per “raffinare”, come scriveva James Madison, i punti di vista espressi dall’opinione pubblica. E, dovremmo aggiungere oggi, anche per evitare la “dittatura” dei “sondaggi di opinione” che trasformano la democrazia in quella sondaggiocrazia che elimina il tempo, chiede immediatezza, frustra ogni discussione ed impone politiche demagogiche ed illusorie, che non risolvono alcun problema riservando le scelte che contano davvero solo ai “tecnici”.
In realtà, una democrazia che trasferisse, direttamente e senza mediazioni, la presunta “volontà” degli elettori entro l’assemblea non potrebbe essere altro che un “democratic despotism”, un dispotismo democratico, cioè una democrazia “padrona” dei suoi cittadini, per usare il termine impiegato dalla pubblicistica americana dell’epoca rivoluzionaria. Cosa che oggi, incredibilmente, le classi dirigenti americane sembrano aver dimenticato, rinnegando la loro origine e i loro padri.
Una idea questa- quella della “mediazione rappresentativa”- che mancò invece ai protagonisti della Rivoluzione francese che identificarono semplicisticamente nell’Assemblea il rappresentante “infallibile” ( proprio come si era considerato il sovrano assoluto) della Nazione una e indivisibile, pretendendo dall’Assemblea parlamentare una espressione univoca e vedendo in ogni divergenza di idee una manifestazione di un “nemico del popolo”.
La decisione politica migliore non è dunque quella che è espressione delle intuizioni estemporanee del “popolo”. Il popolo, specie nell’era delle chat e della comunicazione online, diviene folla, la decisione si attua per impulso e suggestione. E la folla è variabilità e instabilità continua. La voce del popolo non può essere mai “vox Dei”, ma così diviene la scelta del peggio, come è la scelta raccontata nei Vangeli tra Gesù e Barabba.
Il tempo è dunque necessario per consentire l’ascolto, il quale a sua volta rende possibile il dialogo politico ed il confronto vero, che niente ha a che fare con la polemica becera, la diffamazione, la delegittimazione,la demonizzazione, la strumentalizzazione, o anche col confronto fasullo di tanti talk show, cioè con tutto ciò cui in Italia siamo rassegnati da decenni.
Ma qui vorrei aggiungere una precisazione rispetto alle affermazioni di Ruffini. Ascoltare non è stare semplicemente ad orecchie ben aperte per sentire ciò che un altro ci dice e poter rispondere a tono. Così come leggere non vuol dire solo ripetere e comprendere le parole che un altro ha scritto.
La parola e l’ascolto, due cose diverse
C’è un espressione dell’ebraico biblico dedicata all’ascolto della PAROLA in senso alto che ci aiuta a capire. L’espressione è quella ASCOLTARE NELLA VOCE DI…..( shàma be qòl….).Si ascolta non la parola, ma la voce, cioè la persona che dà il senso a quelle parole. E si ascolta non la voce, ma addirittura “dentro la voce”, laddove si coglie il cuore del messaggio con tutte le sue sfumature che non sono mai riconducibili alla parola pura e semplice. La voce è sempre di più della parola. La parola di per sé non è sufficiente , se non viene dalla pienezza del cuore. Lo sappiamo, essa, se lasciata a se stessa, può essere un ponte, una porta di accesso, ma anche un tiranno terribile che domina le nostre menti e ci fa smarrire la strada. Non sarà per un caso due “maestri” sia pur molto diversi tra loro, come Socrate o Gesù di Nazareth, non abbiano lasciato, per quanto sappiamo, parole scritte.
Scendendo un po’ nel quotidiano più modesto , cioè nella politica italiana, potremmo dire che c’è bisogno del tempo e dell’ascolto, ma dell’ascolto vero, di quello libero dalle parole astute, tiranniche e incantatrici. Dobbiamo purificare e liberare il nostro linguaggio.
E liberarlo da cosa ? Prima di tutto, se davvero vogliamo che nelle forze politiche si discuta e che quelle forze discutano seriamente tra loro, dobbiamo liberarlo da tutte le parole che nascono da pregiudizio e strumentalizzazione, le parole indefinite o indefinibili (quelle che nessuno mai spiega ma che tutti sempre adoperano), le parole ambivalenti e che non dicono nulla, quelle fabbricate dai “volenterosi” costruttori di realtà virtuali. Quelle che servono solo a colpire, impressionare, gratificare, fidelizzare, umiliare ed offendere. (Segue)
Umberto Baldocchi