Le diatribe infinite NO VAX- SI VAX che imperversano nei media e nei social hanno rimosso un aspetto della pandemia che sta ora lentamente emergendo. Il perdurare, dopo due anni,  in Italia e fuori d’ Italia della malattia, ormai oltre ogni ragionevole previsione iniziale, spinge a ipotizzare un collegamento che si stenta o si teme di riconoscere, un collegamento profondo tra pandemia ed alcuni aspetti della globalizzazione senza regole. La pandemia potrebbe essere così persistente perché non nasce solo da un virus, ma dalla interazione del virus con le strutture sociali del mondo in cui viviamo, perché in realtà si tratta di una “sindemia”, cioè di una epidemia risultato di una interazione tra virus, condizioni climatiche, ambientali, sociali ed economiche.  Per questo la fine della crisi globale sembra ancora lontana e l’accelerazione della variante Omicron sparge nuova inquietudine. Qualcuno dice addirittura che stiamo entrando nella fase peggiore. Eppure cento anni fa la spagnola non era durata tanto a lungo. E la scienza, pur così importante, non sembra dare molte speranze a chi attende la fine del tunnel.

La pandemia o sindemia attuale sta mettendo in rilievo un aspetto proprio di tutte le epidemie del passato ma proprio di questa in massimo grado, ovvero il conflitto tra immunitas e communitas tra immunità e comunità. Immunitas ( da in-munus) definisce una condizione di esenzione dal munus, cioè da un onere in origine pubblico, il termine ha origine dal diritto pubblico, poi nel linguaggio medico definisce la condizione di refrattarietà/esenzione di un organismo rispetto ad una malattia infettiva, mentre communitas  ( da cum-munus) definisce una  condizione di persone obbligate  da un dovere o compito comune. Si tratta di due situazioni diametralmente opposte. Il dramma delle grandi epidemia  è sempre stato quello della rottura della communitas.  L’esenzione dagli oneri della vita in comunità, la immunitas, era il disvelarsi di una realtà mostruosa.  Ed in effetti l’ immunitas è, da un punto di vista culturale, qualcosa che contrasta con la tendenza alla vita umana che di relazioni comunitarie si alimenta. In un certo senso la tendenza alla immunitas è una dimensione patologica che ci portiamo dentro.

Nella situazione attuale, in cui l’immunità è, prima di tutto, quella vaccinale, si è diffusa l’idea che l’immunità da sola risolva i problemi, come è stato- o sembra sia stato- per vaiolo, varicella, pertosse, poliomielite ecc. Se è avvenuto così un tempo perché non dovrebbe avvenire anche ora?  Il vaccino solo e il vaccino da solo ci potrà salvare, si dice e si ripete senza sosta, anche se con crescente imbarazzo, di fronte a difficoltà, che non possono realisticamente esser spiegate  solo dalla “resistenza” dei NO VAX .

E qui è il punto. C’è una aporia logica cui non facciamo caso nelle comunicazioni quotidiane, l’aporia logica da cui nascono i più gravi errori che conducono alle tragedie esistenziali e storiche, personali e collettive, la confusione di ciò che è accidente con ciò che è sostanza, la matrice di tutti gli errori logici per Tommaso D’ Aquino. Si tratta di scambiare per essenziale ad un soggetto ciò che non è se non accidentale, riducendo così ai minimi termini le questioni complesse. Una operazione mentale cui non facciamo più caso anche perché siamo assuefatti alla semplificazione mentale. A questo portano anche tecnologia e pensiero algoritmico,  che delineano soluzioni derivanti da combinazione di dati assemblati in quantità straordinarie, dati entro cui diventa impossibile distinguere sostanziale  e accidentale.

Diciamo oggi che i VACCINI SONO ESSENZIALI  per battere la pandemia. Ma  intendiamo con questo che essi sono  SUFFICIENTI o che sono  soltanto NECESSARI? E diciamo anche : la pandemia ci ha finalmente fatto scoprire l’INTERDIPENDENZA UMANA ( Nessuno si salva da solo). Ma l’ INTERDIPENDENZA è anche FRATELLANZA  oppure semplice DIPENDENZA da altri ?

Ci siamo così  concentrati sulle VACCINAZIONI, certo inevitabili e necessarie. Ma se la crisi pandemica fosse qualcosa di più di una pandemia e fosse cioè una crisi eco-sanitaria, una sindemia, appunto, potrebbero  davvero ancora  bastare i vaccini? O dovremmo concentrarci piuttosto  su una pluralità di interventi e di trasformazioni che non hanno solo a che fare con la malattia ma col suo background sociale e non mirano soltanto a far risalire il PIL, bilanciando l’obiettivo col rischio sanitario? In effetti, stiamo constatando che non viviamo entro una crisi sanitaria,  ma entro una crisi eco-sanitaria e antropologica globale. Contrastare la crisi allora dovrebbe significare intervenire  su molti elementi, sul sistema dei trasporti, sulla mobilità a lunga distanza delle persone, sull’organizzazione delle strutture ospedaliere assistenziali e scolastiche, sulla motivazione di tutti gli operatori sociali; cioè, dovremmo riuscire a mettere in moto iniziative che mirano a modifiche strutturali e profonde delle relazioni sociali e che non possono dare frutti immediati. Con l’obiettivo chiaro, però, di ricostruire una comunità, cioè una società in cui ciascuno si fa carico degli altri e non delega il futuro della società ad un algoritmo, ad un vincolo finanziario, o a una tecnologia apolitica.

Pensiamo invece spesso alla “immunità” come a qualcosa che ci renda “liberi ed indipendenti” dagli altri (una sorta di “liberi tutti”), qualcosa che ci consenta di muoverci liberamente, di poter fare vita “sociale”.  Il fatto è che però questa immunità, se è deresponsabilizzata, non ci consente di vivere come persone ( vedi articolo  di Domenico Galbiati, Il virus, gli automi, la persona del 22 dicembre CLICCA QUI ). Ci riduce a individui, ad atomi, ad esseri “capsularizzati”, chiusi entro “capsule” protettive, reciprocamente distanziati benché interconnessi, esseri che si muovono sì liberamente, ma che non realizzano in questo movimento alcuna delle libertà che contraddistinguono la persona. La libertà personale non è il puro e libero movimento delle persone, delle cose, delle merci, dei capitali. Questa libertà di movimento è la principale libertà consentita nello Stato assoluto di Hobbes. Ma non è la libertà propria di un contesto democratico e liberale. Non è un caso che le Destre, in Italia e nel mondo, si muovano più di tutto in difesa di questa (pseudo) libertà.

E’ la dimensione orizzontale della libertà collettiva e civile, della fratellanza, della spinta verso il miglioramento personale e comune ciò che viene a mancare, ma così è la società stessa che si sfibra e cessa di esistere, per dar luogo ad un agglomerato casuale di individui. Purtroppo, verso la immunitas – in senso morale e culturale- nel senso di una totale “liberazione dagli oneri e dai doveri”, ci stavamo già incamminando  da tempo. La società atomizzata cui eravamo assuefatti da tempo ci aveva abituato alla separazione (reale, non virtuale) e al distanziamento che poi abbiamo usato come rimedio d’emergenza alla pandemia.

Certo, dobbiamo immunizzarci per difenderci dai contagi. Ma dobbiamo anche vivere entro delle comunità, dobbiamo ricostruire comunità umane vere ed effettive. La communitas da cui sono rinate le città nel Medioevo ed è nata l’Europa, è ciò che dà un volto umano alla società, che fa di essa qualcosa di diverso da una pura simbiosi di esseri umani teleguidati e teleregolati orwellianamente da intelligenze artificiali. La communitas ci può far uscire dalla pandemia, solo essa può farlo. Solo nella communitas si possono realizzare quella solidarietà e quella reciprocità che è decisiva, quell’ “arte del vivere insieme” pur mantenendo le diversità  da cui è nata faticosamente l’ Europa.  Solo se prendiamo a cuore tutti gli aspetti della vita sociale possiamo fermare le pandemie. Come fecero gli Ebrei del ghetto di Varsavia, che nel 1941 riuscirono, sotto il tallone di ferro dei nazisti, che avevano creato le condizioni per una epidemia di tifo, a debellare l’epidemia indotta dal sovraffollamento e dalle terribili condizioni igieniche cui gli abitanti del ghetto furono sottoposti. Riuscirono in questo sviluppando un fortissimo senso di responsabilità, di capacità organizzativa e di spirito di resistenza, l’opposto di egoismo, individualismo ed “immunizzazione” reciproca.

La communitas – oggi distrutta o messa in difficoltà  dalla pandemia-  ha bisogno di ritrovare un orizzonte temporale per esistere. Il tempo è più importante dello spazio. Il tempo è essenziale non lo spazio, come dice Papa Francesco. Il tempo è la visione prospettica che non si ferma a ciò che è possibile e realizzabile oggi, vale a dire al bloccare la crescita dei contagi, a congelare le cartelle esattoriali, a far funzionare la scuola in presenza, a far risalire subito il PIL, a dare un reddito a chi non ce la fa a sopravvivere. Tutto indispensabile, ma tutto tragicamente insufficiente. La communitas, per esistere, ha bisogno di avviare politiche di trasformazione materiale, sociale e culturale che aprano la strada alla speranza. Politiche che vadano oltre l’emergenza, ma che dimostrino che  i governi lavorano davvero per migliorare la vita delle persone; nel caso italiano, per dare riconoscimento al merito paziente di chi studia, lavora e opera senza riconoscimenti e senza certezze, in un Paese in cui la vita normale di una persona  sembra ancora dipendere, anche in assenza di Covid, in gran parte dalla casualità, dalla “fortuna”, dalle conoscenze personali, dalle connessioni con il potere, ai livelli bassi come a quelli più alti della società. Politiche che non si limitino a premiare gli “eroi” che hanno contrastato il Covid, ma che si prendano in carico il dramma invisibile che riguarda milioni di Italiani, paralizzati da paura e incertezza del futuro. Il PNRR è solo un punto di partenza.

Solo se coltiviamo una visione prospettica del reale e non una visione a breve scadenza- “emergenziale”-  possiamo far rinascere quella speranza che nessuna scienza medica ci può dare. Ci vuole però una  speranza vera, quella che non conosciamo più e che anche il mondo antico, il mondo pagano non conosceva. Il termine greco “elpis” che traduciamo speranza significa in realtà attesa, sia di cose positive, sia negative, non significa attesa fiduciosa  di un bene che non conosciamo e che deve venire (“ Spene….è uno attender certo/della gloria futura, il qual produce/grazia divina e precedente merto” Paradiso, XXV, vv. 67-69).  La speranza non è l’ottimismo superficiale di chi dice che “andrà tutto bene”. Essa è piuttosto la convinzione fiduciosa che, in fondo, le pulsioni antiumane e distruttive non prevarranno, al di là delle sofferenze e dei drammi che connotano le vicende storiche. E’ dunque un modo di guardare in prospettiva il presente, fino al punto ( ed è la speranza suprema) in cui riusciamo a  “vedere”  in un bambino appena nato una salvezza per l’umanità, una luce che illumina il mondo.

Senza questa dimensione interiore, senza questa forza ( o virtù), le tenebre restano tenebre e nessuna luce può squarciarle. Tanto meno possono farlo le parole e gli appelli, anche i più sinceri,  come quelli alla solidarietà, appelli  destinati, senza l’elemento della speranza, a cadere  nel vuoto, nell’indifferenza o nell’ostilità appena dissimulata.

Umberto Baldocchi

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