Il “giuramento di Ippocrate” non prevede, neppure nella versione moderna, che un medico possa trovarsi nella condizione drammatica di dover scegliere, tra due o più pazienti, a chi riservare l’unica apparecchiatura ancora disponibile per una terapia salva-vita, riservando agli altri l’assistenza altrimenti possibile, peraltro sapendola inefficace “quoad vitam”.
Non lo prevede in termini diretti ed espliciti, ma pure indica criteri ed orientamenti che tornano utili anche in riferimento ad un’evenienza che purtroppo non siamo in grado di scongiurare ed escludere nel quadro dell’emergenza sanitaria che viviamo.
Se questo, sia pure in via ipotetica, può succedere in sistemi sanitari avanzati come il nostro, possiamo immaginare quante condizioni del genere possano verificarsi in paesi meno sviluppati e carenti dei dispositivi tecnologici necessari ad affrontare la patologia da Covid-19 nelle sue manifestazioni clinicamente più acute e più gravi. Questa non è un’osservazione marginale – ma il discorso ci porterebbe lontano ed andrebbe, se mai, sviluppato in altra sede – dal momento che se la pandemia è tale, cioè coinvolge l’intero pianeta, la risposta deve essere all’altezza della sfida e, quindi, in nessun modo circoscritta al cortile di casa nostra.
Ad ogni modo, il giuramento esclude ogni discriminazione, cioè una selezione preordinata e preventiva in funzione di un criterio generale ed astratto che prescinda da una valutazione condotta, caso per caso, secondo parametri, anzitutto, di valutazione clinica e prognostica.
Non a caso, infatti, il documento recentemente messo a punto dalla Società scientifica degli anestesisti e rianimatori, nonché dalla consorella dei medici legali ( CLICCA QUI ), esclude che si possa stabilire di decidere sulla base dell’età dei pazienti, anche se questo, a parità di condizione clinica, può essere considerato come criterio che orienta a privilegiare il soggetto più giovane in quanto ha maggiore probabilità di trarre giovamento dalla terapia e, nel contempo, una più significativa attesa di vita.
Il documento, pubblicato sul sito dell’Istituto Superiore di Sanità, è offerto alla discussione pubblica e, al di là dei suoi aspetti tecnici, andrebbe letto da tutti. Ci si renderebbe conto quanto sia gravoso l’ impegno professionale ed etico richiesto ai medici delle terapie intensive e la tensione coinvolgente che segna il loro rapporto con il paziente, soprattutto quando devono accertare preventivamente – nell’ipotesi di un possibile, repentino peggioramento e sapendo di non poter disporre di tutte le apparecchiature che sarebbero necessarie – quale sia la sua volontà circa l’applicazione o meno di terapie invasive .
In ogni caso – sostengono le due società scientifiche – si deve passare da un “triage”, evitando di dare la precedenza ai pazienti secondo l’ordine cronologico di ricovero e neppure in funzione della gravità clinica al momento, ma, appunto, in ragione di “chi potrà con più probabilità ( o con meno probabilità )superare l’attuale condizione critica con il supporto delle cure intensive (sopravvivenza in terapia intensiva, con una ragionevole aspettativa di vita al di fuori di essa)”.
“In scienza e coscienza” si diceva in altri tempi, quando la figura centrale dell’organizzazione sanitaria era rappresentata dal “medico di famiglia”. E oggi questo vale a maggior ragione e secondo una intensità ed una complessità della questione in gioco, quanto mai più impegnativa e coinvolgente.
Ovviamente il documento in questione e ciò che seguirà deve porsi l’obiettivo di rendere possibile una omogeneità di comportamento da parte di tutti i sanitari che venissero esposti, in luoghi e momenti diversi, alla stessa eventualità. Omogeneità non significa “omologazione”.
Fortunatamente la medicina per quanto si avvalga della scienza, non appartiene certo al novero della scienze esatte. Soprattutto su una frontiera così delicata, i “criteri di triage non hanno una gerarchia predefinita e non vanno visti come assoluti, ma vanno bilanciati e contestualizzati in ciascuna condizione clinica, nella quale uno o più di essi possono assumere maggiore importanza e quindi guidare in modo prevalente la decisione clinica”. E’ fondamentale che vi siano criteri di orientamento comune e che siano applicati puntualmente al fine di assicurare quella trasparenza del percorso decisionale in carenza del quale cadrebbe la fiducia nella oggettiva equanimità del sistema sanitario e di chi operativamente lo interpreta.
Ovviamente, dobbiamo augurarci che questa preparazione, morale e psicologica, ad una eventualità terribile, venga sostenuta da un efficace controllo della diffusione del contagio e successivamente da un recupero delle condizioni ottimali in termini di dotazione tecnologica dei nostri servizi sanitari.
Soprattutto quando ci si inoltra verso quella sottilissima linea di demarcazione che separa la vita e la morte, o meglio distingue e segnala due campi che si accostano e quasi sovrappongono i rispettivi margini, come rispecchiandosi l’uno nell’ altro, vuol dire che avanziamo verso quella dimensione intoccabile e sacra della persona che trasforma l’opera del medico in una sorta di sacerdozio laico.
Domenico Galbiati