Quello che segue è il contributo di Domenico Galbiati all’approfondimento in corso da parte di INSIEME in materia di Giustizia, coesione sociale e sviluppo possibile (CLICCA QUI)

Non ce la facciamo ad affrontare questo tempo di “transizione” senza una ricomposizione sociale orientata al “bene comune”, capace di riportare gli interessi slabbrati di una società scomposta nella cornice dell’ interesse generale del Paese.

Abbiamo bisogno di punti fermi ai quali ancorare un paziente lavoro di costruzione di rapporti solidali, di reti di reciprocità che ridisegnino un comune orizzonte di senso.

I “diritti sociali”, anzitutto e, tra questi, in primo luogo il lavoro e l’educazione. Intesi come momenti e fattori di libertà e di cittadinanza attiva.

Aderendo, per quanto concerne una più puntuale comprensione di ciò che intendiamo come “bene comune”, alla definizione che suggerisce Luigi Stefanini, uno dei maggiori pensatori della scuola “personalista” italiana, secondo cui il “bonum commune” coincide con l’esercizio e la preservazione dei valori della persona.

Va ricostruito un popolo, va recuperata quella coesione “popolare”, quel sentimento comune che, in altri tempi, era dato, si potrebbe dire, “in natura” ed oggi, invece, va rimesso assieme un pezzo alla volta.

Non usciremo dalla crisi che oggi ci è dato attraversare, se non, se così si può dire, “prendendo il toro per le corna”, assumendo il coraggio di guardarci frontalmente nello specchio per chiederci chi siamo davvero. In altri termini, dobbiamo affrontare con spregiudicata franchezza la cosiddetta “questione antropologica”.

Niente di nuovo sotto il sole: sono le domande di sempre, irrecusabili, scritte nell’ interiorità più profonda di ciascuno. Le domande attorno alle quali il pensiero dell’uomo si affatica da millenni. Domande originarie, non riducibili ad altro, tali da pretendere una risposta niente meno che sul piano ontologico: chi siamo, da dove veniamo, dove andiamo? Kant le pone, a sua volta: cosa posso sapere, cosa posso sperare, che cosa devo fare? Senonché, oggi queste domande si impongono con una tale inaudita radicalità da conferire ai nostri giorni una connotazione “drammatica” nel senso proprio del termine.

Vivere il tempo della “transizione” vuol dire abbandonare certezze consolidate, lasciare – come se l’umanità intera fosse una sorta di Abramo collettivo – la terra dei padri per inoltrarci in una landa inesplorata, forse infida, eppure promettente, verso un confine ancora velato da una densa foschia, come se intanto camminassimo sulle nubi, quasi annaspando in una nebbia impalpabile.

Un territorio, una vasta prateria che, pur nell’articolazione di mille percorsi, offre, fin dai primi passi, due strade maestre: una aperta da chi accoglie la vita come dono; una seconda tracciata da chi la interpreta come possesso esclusivo, esperienza che inizia e finisce con il soggetto. Il quale a nessuno, se non a sé stesso, deve renderne conto.

Due percorsi destinati a giungere fino a quell’ traguardo lontano senza intrecciarsi. Infatti attestano, in ultimissima istanza, in cosa consista la divaricazione antropologica di cui soffriamo, meno scontata, più penetrante e più sottile che non una semplice e netta linea di demarcazione tra credenti e non credenti.

“Coesione sociale” e “bene comune” evocano immediatamente libertà e giustizia. La libertà ha a che vedere con la cifra “solidale” o meno del contesto civile. Il deficit di “coesione sociale” che oggi lamentiamo è, nel contempo, effetto e causa di una interpretazione autoreferenziale di cosa sia la libertà. La quale, in quest’ ottica, si risolve ( e si dissolve ) in quella facoltà di autodeterminazione che, per un verso la afferma – sul versante dell’ individuo – per altro verso – sul fronte della persona – la contraddice e la nega, nella misura in cui smarrisce i profili di relazione e di reciprocità che le sono connaturati.

Si può, dunque, ricomporre quel quadro di solidarietà civile e di “coesione sociale”, che sta a cuore – o, almeno, così dovrebbe essere – alle forze progressiste, solo risalendo faticosamente la china di quella declinazione restrittiva e marcatamente individualista della libertà che oggi, secondo i canoni della cultura radicale, presiede alla enfatizzazione “libertaria” dell’ eutanasia piuttosto che della maternità surrogata.

Ed è qui che – addirittura senza avvertirne la criticità irrisolvibile – sta il nodo della contraddizione in cui cade una sinistra che vorrebbe tenere assieme la cultura “solipsistica” dei diritti civili e, ad un tempo, la cultura “popolare” dei diritti sociali. E questo senza ammettere come non si possa tenere il piede in due scarpe e sia, dunque, necessario privilegiare l’ una o l’ altra delle opzioni possibili.

O ci si decide, come arco di volta del proprio pensiero, per la visione di una società a lembi, in cui prevale la segmentazione sdrucita dell’ interesse particolare di ciascuno – che, a sua volta, nella misura in cui assume il desiderio come inappellabile diritto, mina di quest’ ultimo il fondamento normativo – oppure si opta per quella concezione “personalista” del contesto civile che, coerente soprattutto ad una ispirazione cristiana della cultura e dell’ azione politica, oggi sembra guadagnare adepti anche presso forze progressiste, che, lontane dall’ incaprettamento ideologica di una sinistra d’antan, si confrontano con i temi emergenti della “transumanza” epocale che stiamo vivendo.

La stella polare è la Persona, la bussola che indica il cammino è data dall’ incremento di valore umano che recano con sé le politiche che intendiamo adottare.

Domenico Galbiati

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