Israele: mai così a destra

Premessa:  Poco più di un mese fa si sono svolte le elezioni anticipate per scegliere il nuovo governo di Israele. Si tratta del quinto governo in poco più di tre anni e a questo punto la nazione può dirsi francamente stanca: il clima politico continua ad essere instabile per la natura stessa del sistema elettorale, che si traduce in un proporzionale quasi puro con uno sbarramento di un soffio superiore al 3%. Ai partiti più piccoli è così concesso di unirsi e presentarsi al voto.

Questo proporzionale da un punto di vista della democrazia ha sicuramente i suoi meriti in quanto offre un’immagine quasi perfetta dell’orientamento dell’opinione pubblica e consente ad ognuno la possibilità di partecipare e concorrere alla vita politica con coalizioni che hanno però l’inconveniente di essere appese ad un filo. Ciò è tanto vero che in questi ultimi anni non si è mai avuta una maggioranza elettorale forte abbastanza da poter durare: le coalizioni in Israele sono infatti delle costruzioni terribilmente complesse, capaci di franare sia per un nulla che per questioni di grande rilevanza.

La frammentazione politica è radicata nel sistema politico israeliano e si traduce il più delle volte in coalizioni fragili, che rendono difficile realizzare un progetto politico e spesso ancora più arduo affrontare problemi di peso come quelli inerenti alla politica estera. Si era tentato di porvi rimedio con l’elezione del premier a suffragio diretto, cosa che non è purtroppo bastata a dare maggiore equilibrio nella Knesset. A favorire questa instabilità istituzionale è anche l’assenza di una Costituzione.

Per la componente religiosa l’eterna Costituzione di Israele è la Torah. Lo stesso Ben Gurion, uno dei fondatori dello Stato di Israele e primo firmatario della Dichiarazione di indipendenza, oltre che due volte premier, era contrario ad una Costituzione per motivi di equilibri politici e per evitare limitazioni alla sua azione di governo: gli era  necessario tenere gli ortodossi nell’esecutivo e controllare la popolazione araba rimasta in Israele.

I grandi partiti storici che avevano fatto Israele oggi non ci sono più ed al loro posto si ha un proliferare di partiti e partitini, soprattutto religiosi e di estrema destra, che hanno visioni del Paese molto diverse tra di loro, difficilmente compatibili e spesso impossibili da conciliare. Data la frammentazione del panorama politico tutti questi sono però indispensabili per la formazione di un governo: senza il loro apporto – e lo sanno – nessuna coalizione sarebbe possibile. Il loro potere di condizionamento è dunque superiore al loro peso, visto che a nessun partito è possibile ottenere quella maggioranza parlamentare di 61 seggi su 120.

Ad approfittarne oggi sono le formazioni di estrema destra ed ultra-religiose. La complessità delle coalizioni e le difficoltà di tenerle in piedi è tale che tra i partiti che finiscono con l’unirsi per comporre un governo emergono inevitabilmente delle incompatibilità. E’ stata infatti sufficiente l’opinione contraria di un solo deputato a provocare la caduta del governo e portare il Paese a nuove elezioni anticipate.

Era dal 2015 che non si vedeva una chiara maggioranza per via della polarizzazione della vita politica e per le divisioni e la paralisi che avevano colpito il paese. Estromesso Netanyahu, anche i suoi avversari però non sono riusciti a costruire una coalizione in grado di reggere, tanto che nel corso dell’estate il governo Bennett è scivolato per un voto ed a tenere le redini di un esecutivo di transizione è stato il suo alleato Yair Lapid.

La vita breve del governo Bennett-Lapid:   Israele si trovava di fronte ad un momento difficile a seguito di quattro tornate elettorali nello spazio di due anni. La situazione economica era grave, caratterizzata da un deficit senza precedenti ed un tasso elevatissimo di disoccupazione. All’interno non erano infrequenti le proteste e gli scontri sia nei centri arabi che in quelli a popolazione mista e spesso tra le due comunità ci scappava il morto. A Gaza Hamas restava sempre sul piede di guerra ed i rapporti con i palestinesi di Cisgiordania erano piuttosto tesi.

Il 23 Giugno 2021 entrava in carica il nuovo governo che si reggeva su una maggioranza di 60 voti a favore, 59 contrari ed un’astensione. Benché debole, era comunque l’esecutivo più variegato mai avuto in Israele: abbracciava sia il centro che la destra e la sinistra e vi collaboravano laici e religiosi, ebrei ed arabi. Era un modello esemplare di unità e desiderio di collaborazione.

Questo tentativo retto da un accordo tra Naftali Bennett, leader del partito di destra nazionalista Yamina e Yair Lapid di Yesh Atid, di orientamento centrista e laico, è naufragato dopo poco più di un anno e mezzo di vita. Si è trattato comunque del primo governo capace di rimpiazzare Netanyahu dopo 12 anni di potere. Bennett si era infatti staccato dalla coalizione di quest’ultimo per mettersi alla testa di una nuova alleanza con i centristi di Lapid ed altri sette partiti.

All’interno della coalizione, a dir poco eterogenea, avevano trovato posto: la sinistra socialdemocratica del Partito Laburista Israeliano; Meretz, sempre di sinistra; Resilienza per Israele di Benny Gantz a tendenza liberal-sionista; Nuova Speranza di Gideon Sa’ar (proveniente dal Likud); Israel Beitenu di posizioni nazionaliste, sioniste e laiche, allo stesso tempo anticlericale ed ostile al sionismo religioso; il partito arabo Ra’am di orientamento islamista e favorevole alla soluzione dei due Stati. L’accordo prevedeva un governo a rotazione che vedeva l’alternarsi del primo ministro Bennett per i primi 15 mesi per essere poi sostituito da Lapid.

All’inizio il governo si è mostrato stabile al punto di poter far passare la Legge di bilancio per l’anno 2022. Vi sono stati poi dissidi interni e problemi che hanno portato in momenti diversi alla perdita di due deputati. Venuta meno la maggioranza e senza possibilità di rimettere in piedi la coalizione, il 20 Giugno 2022 Bennett e Lapid hanno deciso di sciogliere la Knesset: le elezioni sono state fissate per il 1 di Novembre. Nel frattempo, il 29 Giugno il premier Naftali Bennett decideva di ritirarsi dalla politica e si dimetteva da Yamina. Il giorno successivo Yair Lapid diventava premier ad interim in virtù dell’accordo iniziale.

Va anche detto che Netanyahu aveva fatto il possibile per creare ostacoli al governo e sfruttarne le profonde differenze ideologiche. Nonostante l’anno scorso fosse stato sconfitto a seguito di una quarta elezione, egli sapeva di essere ancora visto come il politico più idoneo per far fronte ai problemi economici, di sicurezza e diplomatici del paese. Benché laico, egli è comunque apprezzato dalla componente nazionalista e ultra-ortodossa israeliana. Le sue vedute, infatti, sono chiaramente di destra e si allineano con quelle di chi vede Israele come uno Stato ebraico e sionista e considera le poche forze rimaste della sinistra come nemiche della nazione.

Il nuovo governo Netanyahu:  In questo momento, un gran numero di elettori, compresi anche gli indecisi, sono fortemente preoccupati dal costante aumento dei prezzi e alla ricerca di un governo stabile. Dopo aver occupato per ben 12 anni la posizione di Primo ministro di Israele, il premier Netanyahu vi era stato estromesso 16 mesi fa e si trova tutt’ora sotto processo per corruzione e traffico di influenze. Più precisamente, egli aveva governato per 10 anni consecutivi dal 2009 al 2019 e poi per altri due anni. Oggi si è ripresentato alla testa del suo partito, il Likud, ed ha vinto mostrando di non essere solo un politico apprezzato e di talento ma, sotto alcuni aspetti, anche un fenomeno sociale e culturale.

Riguardo l’elettorato, il 50% gli è favorevole mentre l’altra metà non lo vorrebbe al governo. All’infuori di una condivisa ostilità verso di lui non vi è però un minimo di programma comune.

Netanyahu ha ottenuto 32 seggi che, insieme al blocco di destra da lui guidato e composto dal Likud insieme al Partito Sionista Religioso di Bezalel Smotrich, Otzma Yehudit (Potere Ebraico) di Itamar Ben-Gvir, Giudaismo Unito nella Torah e Shas, ha raggiunto la maggioranza assoluta di 64 seggi su 120. All’età di 73 anni Netanyahu inaugura così il suo ottavo mandato come premier con una maggioranza sufficiente a dare più chiarezza e stabilità alla sua azione di governo. Con addosso due processi per corruzione e traffico di influenze, sarà dunque nuovamente al centro della vita politica israeliana con un esecutivo che esprimerà una destra dura, nazionalista ed ultra-religiosa.

E ’ora agli inizi di quel non facile compito che consiste nel negoziare sulla spartizione dei vari ministeri con i suoi alleati. Potrebbe anche essere tentato con il loro aiuto di farsi votare un’immunità per liberarsi da quella spada di Damocle rappresentata dalle sue vicende giudiziarie. All’osservatore esterno non può che risultare evidente come lo Stato di Israele stia virando verso il suo lato più nazionalista e religioso. Questi gruppi si sono andati rafforzando, riflettendo una società all’interno della quale un numero crescente di elettori proviene da paesi che non hanno conosciuto la democrazia. Si potrebbe quasi parlare di un voto tribale.

I due terzi della popolazione tra i 18 e i 34 anni si identificano con le forze di destra e per il 49% della stessa fascia della stessa fascia d’età gli Arabi andrebbero espulsi o trasferiti. A questa soluzione sono contrari il 44%. Va inoltre aggiunto che l’attuale società israeliana non è particolarmente religiosa, ma chi lo è lo è più intensamente al punto che a dominare la sfera pubblica è un’interpretazione più conservatrice del giudaismo.

Due alleati imbarazzanti: Nell’odierna coalizione si è imposto il partito suprematista di destra Potere Ebraico. Questo nel 2019 aveva raccolto meno del 2% dei consensi e due anni dopo riusciva per un soffio ad entrare alla Knesset. Oggi, con più del 10% dei consensi, è diventato la terza forza politica di Israele ed il secondo partito della coalizione dopo il Likud. E’ dunque l’alleato cruciale del premier Netanyahu.

Il suo leader è l’avvocato 46enne Itamar Ben-Gvir. Ha sei figli, proviene da una famiglia di origini mediorientali, ha passato l’infanzia in un sobborgo della classe media ad ovest di Gerusalemme per poi trasferirsi in uno degli insediamenti più radicali nei territori occupati della Cisgiordania.

Persone come lui un tempo erano tenute ai margini della politica. Oggi, grazie anche alla delusione seguita al tentativo di Bennett, Ben-Gvir è riuscito ad incrementare notevolmente i propri consensi. Dichiarando di avere assunto posizioni più moderate dice ai suoi di scandire la frase “Morte ai terroristi” piuttosto che “Morte agli Arabi”. C’è chi esprime qualche dubbio su questa conversione che sarebbe dettata unicamente dal desiderio di imporsi alle elezioni ed andare al governo.

L’uomo è l’erede del rabbino di origini americane Meir Kahane, assassinato nel 1990. Fu il promotore di una linea nazionalista favorevole all’ideale della Grande Israele e alla deportazione di tutti i palestinesi dei Territori occupati, incluso quel 21% di arabi che vivono oggi in Israele. Era anche un sostenitore del divieto di matrimoni misti tra ebrei e non ebrei. Negli Stati Uniti aveva fondato la Lega di Difesa Ebraica e in Israele il partito politico di estrema destra Kach, dichiarato razzista e sciolto dal governo israeliano nel 1994 a seguito del massacro di Hebron.

Per Ben-Gvir il popolo palestinese non esiste ed in passato gli era stato impedito di servire nell’esercito perché considerato troppo estremista. Fino a poco tempo fa a casa sua era appeso un ritratto dell’estremista Baruch Goldstein, che nel 1994 aveva ucciso 29 palestinesi in una moschea di Hebron. Favorevole alla segregazione degli spazi pubblici e al divieto di matrimoni tra ebrei e non ebrei, è stato varie volte condannato per incitamento al razzismo ed appoggio ad un gruppo terroristico come era stato definito il partito di Kahane. Tra le sue idee, quella di incorporare i Territori palestinesi di Cisgiordania da lui chiamati con l’antico nome di Giudea e Samaria.

Si ricorda anche la sua visita nel quartiere arabo di Sheikh Jarrah del Maggio 2021. Questo gesto ha contribuito ad esacerbare le tensioni tra le due comunità ed è stato anche motivo di quegli 11 giorni di scontri a Gaza tra le milizie di Hamas e le forze armate israeliane.

Benché per 25 anni abbia gravitato unicamente ai margini dell’estrema destra israeliana, egli ha svolto oggi un ruolo preminente nel riportare Netanyahu al governo in alleanza con Bezalel Smotrich, leader del Partito Sionista Religioso. Pure lui avvocato, è stato già membro della Knesset e Ministro dei Trasporti dal 2019. In precedenza vi ha rappresentato i partiti Yamina, Tkuma e La Casa Ebraica.

Figlio di un rabbino di destra di origini europee, è un sionista religioso dalle spiccate tendenze conservatrici al punto di rifiutare di stringere la mano ad una donna e dichiararsi omofobo. E’ cresciuto in una colonia di Cisgiordania e ha studiato Diritto religioso. Sul lavoro passa per essere molto pignolo, così come è disciplinato ed organizzato nel portare avanti i suoi programmi

E’ sua opinione che la terra di Israele sia stata promessa da Dio agli Ebrei e che perciò bisogna rendere permanente l’occupazione della Cisgiordania reclamando più terra e più insediamenti: per lui gli Arabi andavano espulsi alla nascita dello Stato di Israele e non esita a dire che “gli Arabi capiranno che non avranno qui uno Stato palestinese”. Il suo partito riflette le opinioni dei coloni più radicali ed in alleanza con gli ultra-nazionalisti di Potere Ebraico ha formato la terza forza politica israeliana, pilastro essenziale del nuovo governo Netanyahu.

I tre vessilli di questo sionismo religioso sono: la Torah di Israele, il popolo di Israele e la terra di Israele. Tra i suoi programmi, anche quello di rimodellare il sistema giudiziario e rendere più stringente la Legge del Ritorno. In poche parole, si tratterebbe di cambiare la natura stessa dello Stato di Israele. Se in passato l’identità ebraica era definita in opposizione ad un nemico esterno rappresentato dagli Arabi, oggi il nemico è invece interno, ovvero gli Arabi di Israele e la popolazione palestinese.

Come già visto in Europa, la società israeliana sta volgendo lo sguardo verso la destra: se in precedenza si poteva dire che Israele fosse guidato da un ideale umanistico, questo oggi è sul punto di svanire: alcuni degli attuali alleati di Netanyahu erano una volta considerati troppo estremisti per andare al governo. Questi rappresentano infatti la versione più aggressiva del sovranismo etnico e religioso, sottolineando come si stia facendo più sottile la differenza tra i partiti di estrema destra ed il Likud.

A tenerli uniti, l’idea di una supremazia ebraica di matrice teocratica. A tutto ciò Netanyahu un tempo faceva da freno: per accedere al potere e conservarlo oggi però ne dipende sempre di più. Questo è ancor più vero in quanto questi partiti potrebbero venirgli in soccorso nei suoi difficili rapporti con la giustizia. Di conseguenza, quella destra secolare e moderata del Likud è sparita con lui, facendone un partito populista che rischia di allargare lo spazio alla destra. Sta così nascendo una nuova entità di estrema destra che lui stesso probabilmente non aveva mai concepito: pur di sopravvivere Netanyahu sembra disposto a tutto e resta da domandarsi come può una società albergare al suo interno un tale grado di violenza.

Nei suoi anni al potere Netanyahu ha gradualmente consentito una netta virata a destra della società israeliana. Finora aveva sempre governato includendo nei suoi governi almeno un partito di centro per porre dei limiti a quanto la destra avrebbe potuto pretendere. La sua attuale coalizione comprende solo formazioni politiche nazionaliste ed ultra-religiose di estrema destra: eccetto la sua, nessun altra forza sarà dunque in grado di frenare i loro eccessi e dissuaderle dall’andare troppo oltre con i loro programmi.

Lo Stato Ebraico sta entrando in un terreno ignoto e non sono in pochi a domandarsi se riuscirà a tenere a freno questa nuova entità di estrema destra. Altri si chiedono se questo governo possa alterare l’ordine democratico interno e minare il suo fragile sistema di pesi e contrappesi. Chi fosse Netanyahu in fondo lo si sapeva, di questi nuovi alleati lo si conosce molto meno.

Per gente come me, rimasta attaccata al vecchio mondo laburista e laico della sinistra israeliana, vedere come siano oggi preminenti nella vita politica del Paese queste formazioni di ispirazione nazionalista, ultra-ortodossa e suprematista appare piuttosto preoccupante. Lo diventa ancora di più se si pensa che queste mirano a sottomettere il ramo giudiziario al potere dell’esecutivo. Questa tendenza potrebbe un giorno anche allargarsi all’informazione, cosa molto grave per una democrazia.

Se ciò dovesse avvenire, vi è da interrogarsi su come sarà possibile governare il paese nel lungo periodo. Potrebbe trattarsi di un pericoloso passo avanti in direzione di uno Stato Ebraico dai contorni razzisti, autoritari ed ultra-religiosi. L’impatto sul processo di pace non potrà che essere negativo, in quanto poco o nulla potrà realizzarsi sulla soluzione della questione palestinese e dunque della pace. L’assenza di volontà nell’affrontare questi temi potrebbe avere conseguenze gravi per il futuro della società israeliana e portare anche ad episodi di violenza. Molto dipenderà da che tipo di pilota si mostrerà essere Netanyahu. Resta il fatto che si è di fronte a parole e comportamenti inaccettabili che potrebbero condurre ad una regressione politica, morale e culturale.

E’ ovvio che il premier non possa considerarsi in sintonia con queste vedute e speri di essere capace di imbrigliare e manipolare queste forze estremiste. Date le attuali alchimie politiche corre però anche il rischio di venirne condizionato.

 Il dilemma di Israele:   Di fronte a questi sviluppi, la questione palestinese è passata in secondo piano. Molto più reali e pressanti invece per l’elettore israeliano i problemi dell’andamento dell’economia, del lavoro e del caro vita. In Israele la vita è costosa ed il potere d’acquisto si è rivelato un fattore determinante della campagna elettorale, in particolare tra le classi medie oggi in crescente difficoltà e costrette a ponderare i loro acquisti. Nel paese l’aumento dei prezzi è oramai una costante che ha visto i suoi inizi nel corso degli anni ‘80 con la spinta liberista e le privatizzazioni nel settore dell’economia.

Se la nascita di uno Stato palestinese dovesse risultare impossibile e i territori di Cisgiordania venissero annessi, la logica impone che un ordinamento democratico venga esteso a tutti, palestinesi inclusi. Se ciò non fosse, l’alternativa sarebbe una situazione di apartheid che porterebbe Israele a non essere più uno Stato democratico. Vi sarebbero da considerare anche le tendenze demografiche, in quanto la popolazione palestinese tende a crescere più di quella israeliana: il rischio per Israele sarebbe quello di non essere più uno Stato ebraico.

 Partendo da questo assunto, le possibilità sarebbero le seguenti:

– uno Stato di Israele che può essere ebraico e democratico, ma di conseguenza non può occupare i Territori di Cisgiordania;

-uno Stato di Israele che può essere ebraico sia sul proprio territorio che in Cisgiordania, ma non potrà più essere democratico;

– uno Stato di Israele democratico sul suo territorio ed in Cisgiordania, ma che inevitabilmente non sarà più ebraico.

Breve cenno sulla questione palestinese:   Con al potere un governo nazionalista, di estrema destra ed ultra-ortodosso rischiano di divenire inevitabili maggiori soprusi e crescente oppressione nei confronti della popolazione palestinese. C’è da aspettarsi anche una spinta verso l’ampliamento degli insediamenti in Cisgiordania e ulteriori confische di terre in un clima oggi già teso: portare al parossismo l’idea del possesso della terra renderebbe inevitabili crescenti tensioni. Non è un caso infatti che l’amministrazione Biden non incoraggi questi possibili sviluppi che renderebbero inevitabilmente difficile costruire dei rapporti stabili con i palestinesi.

Da Gaza, Hamas esprime le sue più vive proteste e denuncia il nuovo esecutivo come il più orientato a destra della storia di Israele. Nei territori di Cisgiordania, invece, si continua ad assistere ad una crescente radicalizzazione della componente giovanile: sorgono e si moltiplicano gruppi armati proni ad agire indipendentemente dall’Autorità Nazionale Palestinese che governa quei territori, rifiutando di riconoscerne la legittimità. Si tratta di bande di rivoluzionari a loro stesso dire prive di prospettive politiche: nessuno parla più di palestinesi e la cosa tutto sommato va bene alla destra israeliana. Le responsabilità della parte palestinese non mancano di certo: ha scontato negativamente la scissione in due tronconi (ANP e Hamas), indebolendosi e subendo di conseguenza ripercussioni negative sulla sua credibilità e capacità di agire.

Quella dell’Autorità Palestinese è una leadership anziana, usurata, corrotta e a corto di idee: Mahmud Abbas ha 87 anni ed è dal 2006 che in questi territori non si svolgono elezioni. Non vi è un parlamento in grado di funzionare ed in passato, quando Israele era disponibile a negoziare, l’ANP ha sempre rifiutato ogni confronto, tanto che i negoziati di pace si sono interrotti nel 2014. Si tratta dunque di una questione di leadership che investe le due parti: sarebbero necessarie da parte di ognuno una creatività, un’audacia ed una volontà politica che purtroppo oggi mancano. Non è forse un caso che a seguito degli “Accordi di Abramo” del 2020 sia diminuita la solidarietà dei leader arabi nei confronti della causa palestinese.

 Andrebbe anche ricordata quella seconda sollevazione araba del 2000: per la sua violenza aveva minato la credibilità dei fautori della pace in Israele e questo poco dopo che il presidente americano Clinton ed il premier Ehud Barak avevano fatto delle aperture di pace al leader palestinese Arafat. A seguito di queste ultime elezioni al ministro degli Esteri palestinese al-Maliki non è rimasto che constatare che “non si è mai avuta una situazione così miserabile sin dai giorni della Nakhba”.

La componente araba in IsraeleAll’interno di Israele si stanno ampliando le divisioni tra la maggioranza ebraica e la minoranza araba, ad oggi poco più del 21% della popolazione. Indicativo il caso di Lod: si tratta di una città mista, nella quale il partito di Ben-Gvir ha raddoppiato i suoi consensi. Lo stesso è avvenuto con il partito Balad, il più estremista di quelli arabi. Questa radicalizzazione è in parte conseguenza dell’esclusione e della discriminazione della popolazione araba.

Nel corso della breve vita della coalizione Bianco e Blu di Naftali Bennett e Yair Lapid, il partito islamico Ra’am di Mansour Abbas non è riuscito ad ottenere risultati significativi di fronte alle attese della popolazione araba che chiedeva maggiori investimenti nel campo della sicurezza, dell’istruzione, dell’edilizia abitativa ed anche più opportunità di lavoro.

Benché favorevole alla ricerca di un approccio pragmatico nei rapporti tra le due comunità, Ra’am è stato criticato dalla componente araba per aver accettato Israele come Stato Ebraico ed aver respinto l’accusa che quest’ultimo praticasse una politica di apartheid. Gli arabi di Israele non volevano inoltre prendersi la responsabilità per eventuali scontri militari e la continua occupazione dei territori palestinesi di Cisgiordania. Mansour Abbas ha anche riconosciuto la realtà dell’Olocausto e non contesta la legittimità dello Stato di Israele.

 Dopo un passato tentativo di farlo entrare nella sua coalizione, Netanyahu aveva definito questo partito come “antisemita ed antisionista, che appoggia il terrorismo e rappresenta i Fratelli Musulmani, il cui scopo è la distruzione di Israele”. Le destre israeliane lo attaccano per i suoi supposti rapporti con Hamas, temendo anche che possa portare ad un’influenza araba nel governo. A preoccuparle anche il fatto di dover dipendere sulle questioni di sicurezza nazionale da un partito arabo e di perdere l’identità ebraica dello Stato di Israele.

Ad accrescere ulteriormente la loro ostilità verso Ra’am e a farlo passare come traditore, anche una serie di attacchi terroristici che avevano provocato una ventina di vittime e che attribuivano all’atteggiamento di quest’ultimo, reo secondo loro di impedire al governo di agire con la necessaria decisione. Il partito islamico ha finito col sospendere la sua partecipazione al governo, così come lo aveva fatto un deputato arabo di Meretz. Alcuni membri di Yamina hanno pure loro deciso di togliere l’appoggio all’esecutivo.

I tre partiti che rappresentano la minoranza araba e che solitamente raccolgono una dozzina di seggi nella Knesset, sono rimasti insoddisfatti dall’operato del governo ed hanno scelto di non partecipare a queste elezioni. Era loro intenzione presentarsi in ordine sparso ma si sono trovati di fronte ad una buona metà della popolazione araba di Israele pronta ad astenersi perché convinta dell’inutilità di recarsi alle urne: ai suoi occhi i governi di Israele non fanno che mostrarsi ostili verso la componente palestinese, sia che questa si trovi all’interno del paese che nei Territori occupati.

Il paradosso è che con i numeri in ballo senza di loro in futuro non sarà possibile ottenere una maggioranza di governo moderata. I laburisti, infatti, non sono riusciti a raccogliere più di 4 seggi ed il partito Meretz nessuno, rimanendo in questo modo fuori dalla Knesset. Con la sua alleanza Lapid di seggi ne ha presi appena 51: la sinistra è stata spazzata via. Queste intanto le parole di un deputato arabo della Knesset: “Ci stiamo muovendo in una direzione che non promette nulla di buono e ci sentiamo presi di mira”.

 Per Hussein al-Sheikh, segretario generale del Comitato Esecutivo dell’OLP, non vi è altra scelta che continuare ad operare sotto le attuali circostanze: “L’alternativa sarebbe caos, violenza e spargimento di sangue”. Aggiunge anche che per il momento non vi è la minima possibilità di creare uno Stato ed è dunque necessario evitare un peggioramento della situazione: a pagarne il prezzo sarebbero gli stessi palestinesi.

 La dimensione internazionale:   Per meglio capire la portata di queste elezioni, è necessario dedicare alcune righe sul riflesso che avranno all’estero. Già in Qatar nel corso dei Campionati mondiali di calcio si sono viste in più di un’occasione sventolare bandiere palestinesi: per la popolazione araba quella palestinese è ancora una causa sentita, così come lo è un’ostilità nei confronti di Israele.

Il premier Netanyahu dovrà innanzitutto prendere in considerazione i suoi rapporti con gli Stati Uniti, che ogni anno inviano ad Israele qualcosa come tre miliardi di dollari in aiuti militari e sono il suo più importante alleato. Egli avrà anche un percorso difficile da compiere tra quelli che sono i suoi alleati interni e coloro che all’estero appoggiano per i palestinesi una soluzione a due Stati.

Il presidente Biden, memore di come quest’ultimo si sia comportato con Obama nel corso di una sua visita a Washington del Marzo 2015, ha più di una volta fatto capire di non avere nulla contro l’uomo, ma di non condividerne le idee. All’epoca i rapporti erano pessimi e la Casa Bianca mostrava la più viva insofferenza nei confronti del premier israeliano.

Il presidente americano ha lasciato oggi intendere di avere non poche riserve sui compagni di coalizione del neo-eletto premier. Non a caso dal Dipartimento di Stato è giunto questo monito: “E’ nostra speranza che il governo di Israele continuerà a condividere quelli che sono i valori di una società aperta e democratica, inclusi tolleranza e rispetto per tutti, in particolar modo verso le minoranze”.

Avendo entrambi sfide più pressanti cui badare, i due leader cercheranno in ogni modo di evitare attriti. Per Washington la precedenza va alla rivalità con la Cina e al problema di cosa fare con la Russia a seguito della sua invasione dell’Ucraina. Lo stesso Israele, per via dei rapporti che intrattiene sia con Mosca che con Pechino, non può dirsi in una posizione di forza e al suo interno sono in molti a dare l’allarme sul grado di penetrazione scientifica e tecnologica cinese nel paese.

Vi è anche il problema del rapporto con la comunità ebraica americana, parte della quale non può dirsi allineata e vicina alle vedute politiche del nuovo governo.

Se questi risultati non sono stati accolti con entusiasmo dall’alleato americano, lo stesso può dirsi per quegli Stati arabi che due anni fa avevano aderito al cosiddetto “Accordo di Abramo”. E’ indubbio che per questi ultimi sarà meno facile digerire questo risultato, in quanto nessuno di loro è favorevole ad un’annessione unilaterale da parte israeliana di quei territori in Cisgiordania che il presidente Trump aveva concesso allo Stato Ebraico: sanno che per la popolazione araba quella palestinese è ancora una causa da difendere.

Netanyahu è per loro comunque un’entità conosciuta. La sua rielezione sarà certamente una sfida ma non dovrebbe rappresentare un problema nei rapporti tra loro: le monarchie del Golfo hanno rinunciato a dare la precedenza alla causa palestinese in quanto tendono a privilegiare i loro immediati interessi nazionali. Firmatari degli “Accordi di Abramo”, questi Stati sono riluttanti a farsi coinvolgere nella disputa tra israeliani e palestinesi: non hanno grande stima dell’ANP e per rafforzarsi sono soprattutto interessati a sviluppare rapporti commerciali e agli investimenti.

In quanto all’Arabia Saudita, a questo accordo non ha aderito ma ciò non vuol dire che sottobanco non sia attivo un dialogo con lo Stato Ebraico. Israele è alla ricerca di capitali ed investimenti, mentre la monarchia saudita è interessata alla sua tecnologia e ad avere un potente alleato per far fronte al comune nemico iraniano. Il principe ereditario Mohammed bin Salman sa che suo padre, il re Salman, è personalmente legato alla causa palestinese. Sa inoltre che se dovesse mollare i palestinesi, l’Iran avrebbe gioco facile nell’attaccarlo in seno al mondo arabo.

E’ anche cosciente del fatto che tra il suo popolo la causa palestinese è ancora sentita: deve perciò seguire una politica di prudente equilibrio e se da un lato non può abbandonare i palestinesi, dall’altro non può permettersi di chiudere le porte ad un dialogo con lo Stato Ebraico.

Se a seguito di questi contatti segreti Riyadh decidesse di normalizzare i rapporti con Israele, in cambio non potrebbe che chiedergli di fare un passo indietro sulla questione palestinese insistendo per la fine del programma di insediamenti in Cisgiordania, la riapertura dell’opzione a due Stati ed infine la soluzione definitiva dello status della collina del Tempio a Gerusalemme, sacra ai musulmani.

 Difficili trattative con gli alleati di governo:  Sono adesso in corso i negoziati per le attribuzioni dei vari ministeri ed i principali incarichi governativi ai suoi nuovi alleati. Il premier torna al governo dopo un anno all’opposizione mentre è in corso contro di lui un processo per corruzione. Bersagliato dai suoi rivali per il modo di procedere, egli sta adesso cercando di rassicurare il paese ed il mondo che sarà lui stesso responsabile delle azioni del suo nuovo esecutivo. Queste sue difficoltà nascono dal rifiuto delle altre forze politiche israeliane di partecipare ad un governo il cui Primo ministro è sotto inchiesta.

Per Netanyahu si tratta di un terreno minato: in gioco vi è fino a che punto sarà capace di controllare i suoi alleati di coalizione ultra-nazionalisti ed ultra-ortodossi.  Ben-Gvir, come auspicava, ha ottenuto il ministero della Pubblica sicurezza. Avrà anche un nuovo ruolo appositamente creato per lui, quello del controllo sulla guardia di frontiera schierata a protezione degli insediamenti in Cisgiordania. Quest’ultimo, in campagna elettorale, aveva promesso di allentare le regole di ingaggio per dare a soldati e poliziotti la libertà di aprire il fuoco senza restrizioni. I poteri che otterrebbe sono così vasti che il suo incarico dovrà essere ratificato dalla Knesset per poter consentire la nascita del governo Netanyahu.

Bezalel Smotrich aveva insistito invece per avere il ministero della Difesa. Per non inquietare soprattutto l’alleato americano, il premier Netanyahu sta facendo il possibile per dirottarlo altrove e limitarne le ambizioni. Lo ha nominato intanto ministro delle Finanze e gli ha offerto il controllo di un dipartimento del ministero della Difesa in quello che potrebbe definirsi il ruolo di premier della Cisgiordania. Avrebbe così un potere cruciale sulle decisioni riguardo l’ordinamento della Giudea e della Samaria come lui ama definirla: questa nomina significherebbe di fatto una divisione di poteri nei confronti del futuro ministro della Difesa. Le trattative sono ancora in corso.

 Indignazione ha suscitato l’idea di dare al deputato Avi Maoz l’autorità sul contenuto dei programmi e delle attività extra-curriculari delle scuole pubbliche israeliane. Quest’ultimo è il leader del partito ortodosso di estrema destra Noam, con un solo seggio nella Knesset. E’ su posizioni omofobe, ostile agli Arabi, al laicismo, al Giudaismo riformato e fautore della segregazione dei sessi. Il sindaco di Bat Yam Tzvika Brot, uomo del Likud, ha affermato che la sua città avrebbe continuato ad educare i propri giovani in uno spirito di pluralismo e accettazione dell’altro. Un gran numero di professori, presidi, sindaci e membri di consigli locali ha assunto la stessa posizione sul tema.

 In ballo anche l’iter del progetto di legge che consentirebbe a chi è stato condannato con pena sospesa di partecipare al governo. La sua approvazione consentirebbe ad Aryeh Deri, leader del partito ultra-ortodosso Shas e condannato per frode fiscale con in più due anni di carcere per corruzione, di ottenere contemporaneamente tre ministeri nel giro di due anni: quello dell’Interno, della Sanità e delle Finanze.

 Questo giocare con i trasferimenti di responsabilità tra ministeri implica delle modifiche alle leggi vigenti. Il timore è che ne possa nascere una struttura amministrativa praticamente impossibile da gestire. Ulteriori contenziosi nascerebbero anche dalle proposte per limitare i poteri della Corte Suprema e la richiesta dei partiti ultra-ortodossi di una nuova legge sull’arruolamento che permetta agli studenti della Torah di essere esentati dal servizio militare.

 Dopo aver creato e offerto così tante cariche di governo, il premier Netanyahu dovrà ora trovare ruoli adatti ai membri del suo stesso partito per evitare lo scontento interno tra gli esponenti con più esperienza politica. Questi corrono infatti il rischio di rimanere esclusi dalla compagine governativa in quanto non vi sarebbero più incarichi a disposizione.

 Questi ritardi nel formare il governo fanno capire il motivo per il quale i detrattori di Netanyahu considerano il suo ritorno come una minaccia allo Stato di diritto del Paese. Quest’ultimo ha comunque preso l’impegno di tenere a bada i suoi partner di governo e di astenersi dal cercare di interrompere il processo a suo carico. I dubbi comunque restano, in quanto vi è da un lato il bene di Israele e dall’altro ciò che è bene per lui: Netanyahu potrebbe muoversi in una direzione che gli consenta di sopravvivere politicamente ma che è distante dagli interessi del paese. I suoi alleati ne sono coscienti e sanno di poterne approfittare ancora.

 Mentre vanno avanti questi negoziati, il premier israeliano dovrà pressare Smotrich e tutte le altre forze radicali alle quali offrirà ruoli ministeriali, di prendere in considerazione il contesto internazionale nel quale opera Israele: dovranno accettare di moderare le loro richieste, dato che lo Stato Ebraico non può permettersi una crisi con i palestinesi così come con la comunità musulmana. Ben-Gvir ha espresso infatti la richiesta di ottenere il pieno diritto di preghiera sulla Collina del Tempio a Gerusalemme.

 Alcune considerazioni finali:  Un anno fa si è visto in Israele accadere qualcosa di rilevante ed inedito: la formazione di un governo di unità nazionale che includeva per la prima volta non solo forze di destra e di sinistra, ma anche un partito arabo islamico che era riuscito ad ottenere 4 seggi nelle elezioni di Marzo del 2021. L’inclusione di questo partito, Ra’am, ha dimostrato che dopo tutto ebrei ed arabi potevano governare assieme.

Oggi, come detto, si ha di nuovo al governo la presenza di Netanyahu a capo di un’alleanza di forze nazionaliste, ultra-religiose, sovraniste e razziste. A farla breve, l’esecutivo più di destra che Israele abbia mai avuto nel corso della sua breve storia. A sottolineare questo stato di cose le parole della parlamentare araba Touma-Suleiman: “Questa non è la tipica destra che noi conosciamo. Rappresenta un cambiamento nel quale una componente destra razzista e violenta rischia di virare verso il fascismo”.

Dopo anni di governi fragili Israele è oggi alla ricerca di un barlume di stabilità. Riuscirà a trovarla? Questa nuova maggioranza per la prima volta dal 2019 mostra una certa solidità, al punto che potrà determinare senza troppe difficoltà sia il bilancio dello Stato che ricoprire le nomine politiche. Si tratta dunque di un governo stabile che però rischia di rendere più fragile il Paese sia dal punto di vista sociale che istituzionale.

Riguardo i palestinesi, il loro problema è virtualmente sparito dallo spazio pubblico israeliano, così come è evaporata l’idea della costituzione di un loro Stato. Per i nuovi arrivati al governo l’idea è quella di “affermare la sovranità su tutte quelle parti di Eretz Israel liberate nel corso della Guerra dei Sei Giorni ed il trasferimento dei nemici di Israele in quei Paesi arabi che circondano la nostra piccola terra”.

Il collante di questa inedita coalizione è una sorta di teocrazia ebraica nazionalista e suprema su tutto, favorevole ad un’ulteriore repressione dei palestinesi e delle altre minoranze non ebraiche. Intende anche aumentare la morsa del giudaismo sulla vita pubblica di Israele e legittimare gli insediamenti in Cisgiordania tramite una riforma della giustizia. Tra alcuni dei suoi membri ultra-ortodossi vi sarebbe anche l’auspicio di eliminare la Corte Suprema.

 La nascita di questa coalizione non va vista tanto come un qualcosa di strano, quanto come il culmine di un processo etnico e nazionalista ostile alla parte palestinese: in precedenza infatti Avigdor Lieberman, fondatore del partito “Israele, casa nostra”, nel 2010 aveva espresso la volontà di trasferire la popolazione araba di Israele e tre anni dopo Naftali Bennett aveva chiesto l’annessione di porzioni della Cisgiordania.

E’ dal 2019 che Netanyahu si è impegnato per creare un’alleanza tra i gruppi di estrema destra dando legittimità a Ben-Gvir, offrendogli una base più consistente e facendolo infine eleggere portandosi appresso Bezalel Smotrich. Va anche aggiunto che molti elettori di Bennett sono rimasti delusi dalla sua alleanza con Lapid e dall’aver portato per la prima volta un partito arabo in seno alla coalizione. Ciò ha contribuito a mobilitare e radicalizzare la sua base, oltre che indignare tutte quelle forze che fanno appello al nazionalismo, al sovranismo e all’ultra-ortodossia religiosa.

Netanyahu, soffiando sul fuoco, ha poi fatto cadere il governo mettendosi alla testa di un gruppo di deputati contrario al rinnovo di quel sistema legale che consente ai coloni israeliani in Cisgiordania di vivere sotto la tutela del diritto civile piuttosto che sotto la legislazione militare con la quale Israele governa i palestinesi.

La domanda è se con i suoi 73 anni il premier Netanyahu sarà in grado di frenare queste formazioni o se finirà con l’inchinarsi a loro per averlo riportato al potere e magari salvato dalle sue inchieste giudiziarie. Quale sarà poi il futuro del Likud una volta che egli avrà lasciato la politica? Inevitabilmente vi sarà un vuoto sulla destra e, se le cose non cambieranno, questo spazio potrebbe venire occupato da personaggi quali Itamar Ben-Gvir e Bezalel Smotrich.

 E’ dal 2009 che Netanyahu riesce a governare con l’aiuto di una destra che col tempo si mostra sempre più aggressiva. Per tornare al potere il premier ha portato il Likud su posizioni più estreme al fine di creare un legame più forte con le formazioni ultra-ortodosse e nazionaliste e contare sul loro appoggio: ha contribuito così a costruire alleanze tra gruppi di estrema destra per poterli poi usare a suo vantaggio e tornare al comando.

 A spiegarlo molto bene è uno studioso israeliano, che ha così descritto la situazione: “Netanyahu per farsi eleggere ha sempre usato una rigida fusione tra identità ebraiche e ultra-nazionaliste. Alleandosi con i suprematisti ebraici ha oggi creato una nuova entità di estrema destra che lui stesso non avrebbe mai potuto immaginare e che non sa in che modo inserire nel suo governo”. Israele ha compiuto un salto nel buio.

E’ vero che questo governo ha un numero di seggi sufficiente per dirsi coeso, ma queste forze poi come gestiranno il loro potere? Riuscirà Netanyahu a domarle e far da freno alla loro agenda politica? Sanerà o renderà più profonde le divisioni interne? Nell’intento di calmare gli animi egli dichiara che sarà a capo di “un governo nazionale che si prenderà cura di tutti”, che lenirà le divisioni nella società e che vuole ricordare come lo Stato di Israele “rispetta tutti i suoi cittadini”.

 Noncurante delle critiche, ha descritto i suoi avversari come allarmisti e incapaci di accettare i risultati di queste elezioni. Su Facebook ha postato queste righe: “Sono stato eletto per guidare lo Stato di Israele ed intendo farlo nello stesso spirito dei princìpi nazionali e democratici sui quali sono stato educato nella casa di mio padre e che mi hanno guidato nel corso della mia vita”. In un’altra occasione aveva scritto che “per oltre 20 anni ho guidato lo Stato di Israele con senso di responsabilità in tutti i suoi ambiti e continuerò a farlo anche questa volta”.

Le circostanze sono tali che di fronte ad una comunità sempre più divisa e frammentata la grande sfida che Netanyahu si troverà ad affrontare è quella di tenere il paese unito e, una volta formato il nuovo governo, ad essere in gioco sarà la natura stessa dello Stato di Israele, il tipo di Paese che vuole essere e chi lo deve guidare.

Per lo Stato Ebraico sarà difficile dare risposta a questi interrogativi senza la partecipazione dei partiti arabi: né le coalizioni di centro-sinistra né quelle nazionaliste ed ultra-religiose hanno ad oggi consensi sufficienti per formare una maggioranza moderata. L’ago della bilancia potrebbero quindi essere proprio questi partiti che rappresentano oggi intorno al 21% della popolazione.

Come reagirà Israele di fronte a questi campanelli d’allarme e quale sarà il suo futuro? Riusciranno a sopravvivere quei valori di uguaglianza, rispetto dei diritti e democrazia che fino ad oggi lo hanno caratterizzato? Si tratta di una sfida esistenziale che dovrebbe aprire un dibattito su ciò che è necessario affinché Israele resti uno Stato democratico. Quello a cui stiamo oggi assistendo non promette certo bene.

Edoardo Almagià

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