(Questo intervento segue quello già pubblicato lo scorso 23 novembre a firma dello stesso autore CLICCA QUI)

Quando don Sturzo, con il Discorso di Caltagirone del 1905, avvia l’iter di una presenza di cattolici in politica, perché essi “si mettano a paro degli altri partiti della vita nazionale“, è decisamente acceso il dibattito all’interno del Movimento cattolico sul “come” e sul “dove” scendere in campo. I tempi invogliano ad un impegno politico diretto dei cattolici. Almeno tre fattori appaiono determinanti. Il primo: l’affievolimento della proibizione a partecipare alle elezioni politiche (non expedit), grazie all’autorizzazione, data per la prima volta ai cattolici da Papa Pio X, a prendere parte a quelle del 1904. Il secondo: l’invito di Giolitti fatto ai cattolici ad entrare nelle liste delle elezioni amministrative. Il terzo e più importante: la mutata situazione socio-economica che vede un’espansione dei processi produttivi nell’industria e l’esplodere della “questione sociale”, sulla cui soluzione si è pronunciato Papa Leone XIII con l’Enciclica “Rerum Novarum“.

Ma, nel momento, in cui si apre per i cattolici la vita politica nelle istituzioni, ecco insorgere problemi di non poco peso. Il più grave è che essi sono privi dello strumento principale di partecipazione democratica, rappresentato dal partito, vale a dire di una “casa comune”, ove confrontarsi, dialogare, programmare, organizzare, restando uniti nei principi e nella loro realizzazione pratica. Proprio questa carenza favorisce una divisione di orientamenti sul “come” agire, sul “dove” andare e soprattutto con “chi” accompagnarsi in uno spazio politico diversificato, contrastato, antagonistico. Emerge tra i cattolici, semplificando, un pluralismo contrapposto tra il “clerico-moderatismo” e la “democrazia cristiana” di don Romolo Murri. Il primo orientamento spinge nel 1904 i cattolici a votare candidati liberali in quei collegi, ove appaiono agguerriti i socialisti e gli anticlericali. Il secondo orientamento si scontra con il primo, tacciandolo di conservatorismo, puntando ad una modifica della struttura socio-economica in direzione della giustizia e dell’equità sociale.

Stabilite le debite differenze, non c’è chi non veda una forte analogia tra la situazione dei cattolici di ieri e quella dei cattolici di oggi, gli uni e gli altri senza una “casa comune”, necessaria per operare in politica efficacemente. Anzi, la situazione di oggi è ancora più grave di quella di ieri, perché i Meda, i Murri, gli Sturzo di ieri vagheggiavano un partito che non avevano, mentre i cattolici di oggi avevano un partito e colpevolmente l’hanno perduto e più colpevolmente non sono riusciti a ritrovarlo. Anche quel partito, come tutte le cose umane, era tutt’altro che esente da difetti e vizi, pure morali, tanto da far dire a don Sturzo nel 1958, un anno prima di morire: ” Nella Democrazia Cristiana, bisogna fare quello che si fa in ogni casa al principio della primavera: pulizia generale“. E si era nel 1958, non negli anni ottanta-novanta del secolo scorso. Eppure, quel partito è stato la colonna vertebrale della democrazia italiana; il partito protagonista della rinascita e della ricostruzione di un Paese, lasciato in macerie dal fascismo; il partito che, guidato da Alcide De Gasperi, nelle elezioni del 18-19 aprile 1948, evitò che l’Italia cadesse dalla padella bruciata del fascismo nella cenere bruciante del socialcomunismo di stampo staliniano; il partito che ha impresso un trend ascendente di un benessere sociale ed economico, mai conosciuto prima nella storia d’Italia.

Senza una “casa comune”, i cattolici di oggi si sono dispersi nelle “case altrui”, pensando di animarle con i loro ideali e finendo per diventare complici delle loro brutture ideologiche, dal consentire al populismo-nazionalismo-razzismo della Destra al tollerare i “diritti civili” all’aborto, all’eutanasia, alla libera droga della Sinistra. E, come pifferi di montagna, andarono per suonare e furono suonati.

Risulta, più che mai, attualissima ed esemplare la scelta popolare unitaria di don Sturzo. Bisogna convincersi che se la politica “è la forma più alta di carità“, come hanno ripetuto tanti Papi negli ultimi decenni, questa, per essere efficace, in un regime democratico, abbisogna di una forza elettorale sufficiente che si ottiene solo stando uniti, insieme, in una “casa comune”. Insistere sul pluralismo dissennato nelle “case altrui” porta all’irrilevanza politica e al tradimento della “forma più alta di carità“. Ma quando i cattolici a tutti i livelli, non esclusi quelli gerarchici, lo capiranno?

Michele  Zappella

 

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