Il prossimo febbraio, con le elezioni regionali in Lombardia e Lazio, prende avvio una stagione di confronti elettorali che – dalle europee del 2024, al rinnovo delle altre Regioni e con le Amministrative che, via via, chiameranno al voto le maggiori città – costelleranno il quinquennio della legislatura che ha preso il via lo scorso settembre.

La tentazione è di guardare, d’un sol colpo d’occhio, a questo intero arco temporale come ad una complessiva disfida tra la destra che governa l’Italia ed il resto del mondo politico-istituzionale. Se mai, allargando lo sguardo, oltre le tematiche immediatamente attinenti il governare quotidiano, al confronto tra culture politiche che vi è sotteso ed a quel processo di egemonia che la destra sembra voler coltivare, sognando d’imprimere alla complessiva vita civile del nostro Paese, un’impronta uguale e contraria a quella che la sinistra esercitò negli ultimi decenni del secolo scorso.

Si tratta di una lettura legittima, perfino doverosa ed inscritta nell’ordine delle cose. Eppure, quest’ottica è talmente parziale da risultare fuorviante ed ingannevole. Se ci attenessimo a questa interpretazione perderemmo di vista, a tal punto, la contestualizzazione storica del momento, da giocare una partita senza sapere quale sia la vera posta in gioco. Una partita giocata in tali condizioni sarebbe inevitabilmente persa, a meno d’un fortunoso autogol dell’avversario.

La vera partita, infatti, ancor prima che tra destra e sinistra, avviene tra politica e populismo. Una partita, peraltro, a suo modo asimmetrica. Si può dire, infatti, che allo scadere del tempo vincerà chi, fra gli attori in campo, meglio e prima degli altri sarà stato in grado d’incardinare le proprie istanze – siano classificabili di destra piuttosto che di sinistra o d’altro genere – dentro un percorso politico strutturato e coerente, piuttosto che abbandonarlo alla sciatteria inconcludente di un populismo senza costrutto. Se le forze in gioco propendessero, infatti, per quest’ultimo sarebbe come scivolare verso un’invasione di campo, una conclusione ignobile dove nessuno vince e tutti perdono. Senonché, ad un certo punto, la politica pretende che vi sia un indirizzo irrecusabile, capace di orientare la domanda sociale verso traguardi d’interesse generale e, a quel punto, si fa carico di promuovere figure e leader che sappiano dare corpo a questa istanza.

E’ difficile dire se sia il movimento che pervade il contesto civile a creare il leader o sia, piuttosto, quest’ultimo a scolpire, fuori dalla massa informe della gente, un nucleo sociale e tematico su cui costruire un discorso pubblico dotato di senso. Senza una figura di riferimento, che “senta” il momento e gli dia forma, quest’ ultimo, per quanto sia ricco di speranze, rischia di essere disatteso e di scivolare via senza lasciare traccia.

Questa dinamica dà conto, per molti aspetti, del rilevante valore dell’iniziativa “politica” che Letizia Moratti ha assunto in Lombardia. Dopo decenni di bipolarismo bloccato, la Regione più importante ha bisogno di scrollarsi di dosso questa camicia di forza e di riscoprire la politica, cioè quella dinamica e libera articolazione di un confronto vero, autentico, capace di liberare le linee di forza che percorrono un contesto civile tanto ricco e plurale. In questo senso, si può dire che la candidatura Moratti abbia già vinto, nella misura in cui offre ai lombardi un’opportunità di partecipazione consapevole e critica al discorso pubblico e di espressione effettivamente libera di un consenso che fin qui è stato imprigionato nella tagliola del cosiddetto “voto utile” e nel segno di una mera contrapposizione tra due parti, attente, l’una e l’altra, a disfare l’ avversario piuttosto che proporre una linea costruttiva. Purtroppo, se non nell’elettorato, vi sono gruppi dirigenti – vedi il PD – che non riescono a sottrarsi all’idea di una “coazione a ripetere” che penalizza, anzitutto, loro stessi.

Necessario riscoprire, dunque, la dimensione politica delle tematiche che investono anche la Lombardia e riguadagnare, accanto alla leadership economico- produttiva, anche quel primato di “capitale morale” dell’Italia che la Lombardia ha detenuto nei suoi anni migliori.

Domenico Galbiati

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