Dal 1943 al 1945 Verona è devastata dai bombardamenti aerei delle truppe alleate. In due anni si verificano ben 28 incursioni micidiali: di giorno cadono sulla città le bombe degli aerei americani, durante la notte quelle degli aerei inglesi. L’ultima incursione del 6 aprile 1945 causa 700 morti ed un numero superiore di feriti.
In precedenza, dopo l’8 settembre 1943, alcuni partigiani locali e il colonnello Eugenio Spiazzi avevano sparato ai tedeschi, provocando una sanguinosa ritorsione nazista.
Il commissario Guido Masiero e il suo vice Giuseppe Costantini avevano falsificato documenti di identità per mettere in salvo partigiani e moltissimi ebrei, salvandoli in tal modo dai campi di sterminio nazisti.
Nella caserma fascista viene torturato a morte per 16 ore il colonnello degli alpini Giovanni Fincato. Il suo corpo gettato in Adige non sarà più ritrovato.
L’8 – 10 gennaio 1944 sono processati a Verona e poi fucilati l’11 gennaio a Forte Procolo, Galeazzo Ciano, genero di Mussolini ed altri gerarchi fascisti, accusati d’aver approvato il 25 luglio 1943 al Gran Consiglio del fascismo l’ordine del giorno “Dino Grandi”, con cui i firmatari chiedevano al re di riprendere la guida dell’esercito e il governo della nazione. Il 23 agosto sempre a Forte Procolo, viene torturato per ore e poi fucilato Lorenzo Fava, il partigiano che il 17 luglio del 1944 aveva condotto l’assalto al carcere degli Scalzi (prigione della Repubblica Sociale italiana fasci-nazista).
La guerra vide quindi italiani combattersi in schieramenti opposti: le truppe alleate (americani e britannici), dopo che i tedeschi fuggirono da Bologna il 21 aprile, dilagarono rapidamente per tutta la pianura padana. Il 23 aprile 1945 l’Esercito Cobelligerante[i], che risaliva l’Italia liberandola dalle truppe nazifasciste, giunse al Po. I nazi-fascisti ormai sapevano che entro 70/80 ore il loro nemico sarebbe giunto alle porte di Verona. Da Berlino alle truppe tedesche, formate da quadri incompleti, soldati delusi, inaciditi, impauriti, disperati, fu dato l’ordine di resistere più possibile ed infine risalire il Brennero, soltanto dopo aver minato e fatto saltare i ponti scaligeri, i depositi di esplosivi, armi e munizione e dopo aver distrutto ogni faldone contenente carteggi compromettenti.
Le cave di pietra usate come polveriera
A Verona i tedeschi avevano posto in varie cave naturali[ii] casse di armi, di munizioni, e di esplosivo. Oltre alla polveriera di Corrubbio, ad aprile erano ancora vigilate dai nazisti in ritirata quelle di Gargagnago e di Avesa. Quest’ultima era scavata fin da tempi antichi sul monte Arzàn.[iii]
Dal 1944 i nazisti avevano immagazzinato in essa 60.000 casse di tritolo, casse di proiettili e diverse armi. Ogni cassa pesava 50 kg. (…).[iv]
Qualora la polveriera di Avesa fosse esplosa, per Verona sarebbe giunta l’Apocalisse.
Trapela una notizia terribile
Che le polveriere potessero essere fatte scoppiare correva voce già nei giorni precedenti al 25 aprile 1945; la conferma si ebbe proprio nel pomeriggio di quel mercoledì 25.
Racconta un testimone, Lino Pighi: “La notizia che la polveriera sarebbe stata fatta scoppiare è trapelata dal Comando tedesco di via Cartolari.[v] Un maresciallo tedesco, conosciute le intenzioni dei superiori, è andato da Domenico Avesani, che abitava davanti alla strada all’imbocco della polveriera, per avvertirlo del pericolo. Avesani allora ha raccontato quanto aveva saputo alla maestra di Avesa, Maria Bordoni, che, a sua volta, è corsa ad informare il parroco, don Giuseppe Zerbini”. [vi]
Va sottolineato che anche fra i soldati tedeschi non mancò chi, per fede o per rettitudine, seppe disobbedire ad ordini ingiusti, con gesti piccoli o grandi di umanità, talvolta eroici. Fra questi segnalo Leonardo Dallasega, altoatesino arruolato nell’esercito tedesco, ucciso perché si rifiutò di fucilare don Mercante.[vii]
Non sempre la guerra travolge tutto e tutti.
Per proseguire il racconto di quei giorni terribili, riprendo il diario di don Giuseppe Graziani. E’ fondamentale approfondire alcuni tratti della vita di quest’uomo, per capire i fatti.
Don Giuseppe Graziani
IL 25 aprile 1945 per don Giuseppe Graziani[viii] (come annotò nel suo diario) fu “il giorno più lungo”. Da un anno egli era tornato ad abitare ad Avesa, per unirsi ai suoi familiari. Riporto le sue parole:
“Io, ferito al fronte di Nettuno-Anzio al polmone destro, ero stato messo in congedo assoluto, inabile a qualunque servizio militare. Per me la guerra era finita, me ne stavo in convalescenza al Casalin di Avesa. A seguito di un ferimento al polmone destro. (….) A seguito di quel ferimento tornai ad Avesa dov’ero già stato anni prima come curato, rinunciando al posto di parroco in Castelvero. Una scelta causata da motivi di famiglia (….). Nel 1935 partii volontario come Cappellano militare, destinazione Somalia (…) Poi ebbi come destinazione l’Aeronautica della Sicilia, ove trascorsi due anni, anche come pilota. Nel 1939 passato in Marina (sommergibili) e a La Spezia con attività nel Mediterraneo, sopportai tutto il peso dell’ultimo conflitto”. [ix]
Già da queste righe si rileva l’esperienza che questo cappellano maturò in vari teatri di guerra.
Sebbene il sacerdote non godesse di buona salute, il vescovo di Verona lo convocò assieme al parroco di Avesa, don Giuseppe Zerbini. L’obiettivo del presule era quello di convincere don Graziani a riprendere il ministero di cappellano, in un ruolo delicatissimo, pericoloso ed arduo: testimoniare Cristo all’interno della Brigata Nera, formazione dell’esercito fascista, in cui più di un prete aveva fallito.
Don Graziani cercò con tutte le sue forze di opporsi a quell’incarico, ma l’insistenza e l’autorevolezza del vescovo fu tale, che non gli fu possibile rifiutare; anche in questo ambito si segnalò per molte opere di bene. Esistono testimonianze scritte, colme di gratitudine verso don Graziani, per essere riuscito con vari espedienti a salvare molte persone dagli eccidi, dalle torture e dalle prigioni nazi-fasciste.[x]
Continuiamo con le parole del suo diario: “Mercoledì 25 aprile mentre stavo passando in bicicletta[xi] nei pressi della chiesa parrocchiale vedo uscire dalla canonica la maestra signorina Maria Bordoni. E’ agitata e mi ferma dicendomi: Cappellano, i tedeschi fanno saltare questa sera la polveriera!”.[xii]
Ai tedeschi importava solo che l’esplosivo non finisse nelle mani degli Alleati: della popolazione e di Verona a loro non interessava nulla.
Appresa la notizia, don Graziani si precipita in bicicletta in città. Verona dista da Avesa alcuni chilometri. Trafelato il prete si presenta alla sede del comando tedesco. Siamo ormai nel pomeriggio del 25 aprile 1943. All’interno dell’edificio regna disordine, frenesia e terrore: negli uffici soldati e impiegate tedeschi rovesciano armadi, gettano documenti dalle finestre nel sottostante giardino, dove altri militari li raccolgono e li distruggono in vari falò.
Aggirandosi fra gli uffici, chiedendo di poter parlare con il comandante, il sacerdote incontra un’interprete tedesca che gli dice, sommessamente:“Venga, venga da me dal Colonnello; cosa grave; questa sera alle 10”.
Pochi passi e don Graziani si trova faccia-faccia con il comandante tedesco. Cosi egli descrive quell’incontro:“Dio benedica quella buona interprete… E l’alto ufficiale a squadrarmi dall’alto in basso, seccato, sprezzante; gli leggevo sul volto quello che pensava: Cosa viene a seccarci le ore questo pretuncolo, non vorrà che si cambi programma; avere ordini dall’alto’, ma io insistevo, supplicavo…”. [xiii]
Il sacerdote in abito di cappellano militare graduato capitano, porta sul petto le medaglie con cui era stato decorato per fatti eroici ottenuti in vari fronti di guerra. [xiv]
Dopo essersi presentato ed aver chiesto al colonnello comandante che cosa accadrà alla polveriera di Avesa, [xv] il sacerdote riceve conferma che essa esploderà entro poche ore.
Don Graziani scuote la testa, con l’aiuto dell’interprete supplica, scongiura l’ufficiale di cambiare decisione.
Il colonnello, sempre più stizzito e inquieto, alzandosi di scatto dalla scrivania e servendosi di una matita colorata, segna con un ampio cerchio la carta topografica della città, appesa alla parete, dentro quel segno vari paesi e frazioni, fra cui Avesa, Quinzano, Parona, Borgo Trento, Borgo Milano, Bosco Mantico, Chievo; il tratto sfiora il Ponte della Vittoria, prende in pieno il Ponte Pietra, sale poi verso la Valpolicella, Poiano, Novaglie e borghi abitati minori.
Infine, fissando gli occhi del sacerdote, pronuncia secco:“Kaputt!”.
Affranto don Graziani implora il comandante tedesco di fermare l’ordine, di non far saltare la polveriera. L’ufficiale, irremovibile, spiega d’essere costretto ad eseguire gli ordini di Berlino.
Quando la situazione sembra immodificabile, il sacerdote, grazie alla sua esperienza militare, chiede all’ufficiale di ordinare lo svuotamento della cava: disperdendo il tritolo all’aperto, essa non esploderà. L’ufficiale replica che non ci sono uomini e tempo per esaudire la richiesta.
Scrive Graziani:“Il comandante del Platz Commanndantur mi disse:“Non avere ufficiali”.“Essere io ufficiale”, soggiunsi, battendo la mia mano sui miei gradi.“Non avere soldati”.“Avere io tanti uomini”, dissi e così arrivai a strappare il permesso: merito della Provvidenza che in quel momento mi aiutò, perché neppure il vescovo venne ascoltato”. [xvi]
Colpito dal coraggio e dall’intelligenza del sacerdote, l’ufficiale tedesco concede il permesso di svuotare la polveriera, rammentando a don Graziani che sarà solo il prete ad essere responsabile qualsiasi cosa dovesse accadere. Il sacedote con un respiro di sollievo accetta, ringrazia, chiede gli sia consegnato un attestato firmato dal comandante stesso, da consegnare al corpo di guardia della polveriera; ottenutolo torna ad Avesa, pedalando con ogni sua forza.
Così ricorda Giuseppe Aprile:“Don Graziani veniva su (da Verona n.d.r.) per Avesa con una bicicletta da donna, pedalava forte. Aveva qualcosa in mano, penso il permesso”.
E Pietro Ferrari:“In Piazzetta don Graziani ha detto: Abbiamo ottenuto di sgomberare la polveriera, dopo tanta fatica. Dobbiamo andare. Sono stato uno dei primi ad andare con lui, la prima volta. Ma i tedeschi di guardia non hanno riconosciuto valido il documento. Le linee telefoniche dovevano essere interrotte. Uno dei tre tedeschi, sul camion, che più tardi ha portato don Graziani ad Avesa, con la conferma del permesso, ha detto: Per noi morire è uguale.
Una donna, non ricordo chi fosse, ha ribattuto, indicando le colline: Di là c’è una mamma che ti aspetta.
Aggiunge Mario Righetti:“Verso le sette e mezza, otto di sera con don Graziani siamo andati in polveriera ma, arrivati ai cancelli, i documenti non erano sufficienti. Allora don Graziani è tornato al Comando tedesco”.
E mentre il sacerdote torna al Comando tedesco chiedendo un passaggio ad un camion tedesco, alcuni giovani di Avesa vanno a cercare aiuti nei borghi vicini
Umberto Avesani precisa:“Don Graziani dopo un’ora è ritornato ed allora siamo andati tutti in polveriera”.
E Umberta Rabacchi:“Don Graziani era sul camion col megafono. Diceva: Cittadini di Avesa, per salvare Avesa e Borgo Trento andate in polveriera”.[xvii]
I contatti fra il corpo di guardia della polveriera e il colonnello non si riescono a collegare, s’interrompono e riprendono ad intermittenza. Finalmente, dopo dovute rassicurazioni superiori, il corpo di guardia della cava concede a don Graziani di agire. Da lontano si sentirono nel frattempo l’eco di scoppi tremendi.
“Dalle sette di sera del 25 aprile i nazisti in ritirata fecero saltare tutti i ponti di Verona, tradendo le promesse fatte al vescovo di Verona Mons. Cardinale e al Soprintendente scaligero Gazzola, che chiedevano di risparmiare almeno ponte Pietra e quello di Castelvecchio. Il vescovo si era prestato come mediatore, e i tedeschi gli avevano assicurato che i ponti non sarebbero saltati se i partigiani si fossero astenuti dagli attacchi. Invece…”. [xviii]
Dichiara Gianfranco De Bosio, regista e sceneggiatore veronese, che fu membro del Comitato di liberazione nazionale:” Fu la peggiore sconfitta della Resistenza veronese: non riuscimmo a impedirlo. I gruppi cittadini erano disarmati e dal Baldo non scese nessuno”.[xix]
Purtroppo solo circa alle ore 22, una catena umana formata da 800 persone, fra cui anche varie donne, si mette all’opera iniziando ad asportare in assoluto silenzio, fra polvere soffocante, le prime casse, poi di seguito altre ed altre ancora, trasportandole fino al prato che discende dal monte Arzàn.
Lavorando a catena c’è chi fa la spola dentro e fuori la cava e chi fuori ad essa svuota il tritolo disperdendolo a terra. Ogni cassa ha bisogno d’essere trasportata da due persone, ma c’è chi riesce a portarla in spalle.
Una scintilla e sarebbe stata la morte di tutti! Sotto l’attenta e febbrile direzione di don Graziani, la catena opera fino alle tre di notte. L’alba prevista alle ore 6,00 s’avvicina e molte casse devono ancora essere svuotate.
Scrive don Graziani:“I tedeschi si sarebbero fatti a pezzi pur di tenere in mano tutto quel materiale esplosivo (…) erano esasperati, rabbiosi, umiliati, dopo essere stati uno dei migliori eserciti dell’Europa, doversene andare sconfitti! Tale loro stato d’animo io l’ho letto nell’espressione tanto del colonnello comandante del “Platz commandantur” della zona, come nell’animo del graduato responsabile della polveriera, quando mi disse Questo permesso non essere buono. Io avere altri ordini! Un minuto e tutta la gente via! Noi sparare! Si trattava di vita o di morte! E nessuno proprio nessuno si era fatto avanti a prendere il mio posto. Ero rimasto responsabile di 800 uomini circa e di centinaia di famiglie coi soldati di guardia, che pieni di rabbia mi controllavano attimo per attimo: un loro soldato (lo seppi più tardi e lo testimoniò l’interprete) era destinato a farmi fuori se avessi dato qualche segno alla massa dei portatori. In tutta la faccenda ci diede una mano la Provvidenza. Non vado in cerca di riconoscimento; il plauso vada a tutte le persone che, in quella notte, la notte più lunga di Avesa, hanno lavorato sudando e rischiando la vita”.[xx]
La gente di Avesa
Difficile capire fino in fondo quale sia stato l’animo dei cittadini di Avesa nonché la loro tensione emotiva, la fatica, la paura, l’ansia per la vita di fratelli, genitori e figli, la preoccupazione di non riuscire a compiere in tempo la missione.
Già sul far della sera nella chiesa parrocchiale avevano iniziato a radunarsi i più anziani: le donne, con la corona del rosario in mano, invocarono con grande fede il miracolo. Durante la notte fra i tedeschi il nervosismo aumenta, soprattutto dopo aver ricevuto informazioni per loro preoccupanti: il comando nazista a Berlino si sta sfaldando. La guerra per i tedeschi è persa. Gli alleati, uniti alla popolazione liberata, sono ormai prossimi a Verona.
Saputo questo il comando nazista cambia l’intesa concordata con don Graziani: nonostante l’alba non sia ancora sorta, il comandante dirama l’ordine di far scoppiare immediatamente la polveriera. La notizia giunge alle sentinelle tedesche che cacciano la gente operosa. “Raus, raus!”.“Uscire, uscire, via, via!”“raus, raus, caput, caput!”.Momenti epici drammatici.
Ogni due casse di tritolo asportate, una casa salvata
Alle invettive tedesche la gente, stanca per sei ore interrotte di lavoro, fugge impazzita più lontano possibile, consapevole del dramma che accadrà, poiché tante casse di tritolo giacciono ancora all’interno della cava. Di quelle ore tremende scrive don Graziani:“Il lavoro ebbe fine quando, non ancora asportato tutto l’esplosivo, venne in polveriera un camion di guastatori delle SS per il brillamento; anzi debbo aggiungere che, al comparire del camion di armati in polveriera alle ore tre, tutta la gente volle andarsene e riuscii a convincere un centinaio di uomini a rimanere ancora con me, dicendo a tutti che ogni due casse portate fuori era ancora una casa salvata; e si rimase a lavorare sino a quando i tedeschi alle 3,40 ci ordinarono di allontanarci. Alle ore 6,00 brillò l’esplosivo non potuto asportare ed il monte si squarciò”.[xxi]
Uno scoppio terribile, fragoroso fende l’aria, “immenso volteggiare nel cielo di massi enormi, di alberi… nubi bianche e nere e lingue altissime di fuoco”; un masso enorme ricade su una casa, provocando 7 morti e ingenti danni.
E’ indubbio che se non ci fosse stata la popolazione di Avesa, guidata dal coraggio e dall’intelligenza di don Graziani, a cui ancora oggi e per l’avvenire dobbiamo rendere grazie, onore e ammirazione, si sarebbe verificata una strage.
Mi addolora non essere presente oggi 25 aprile al cippo di Avesa per commemorare quei tragici fatti. A causa della pandemia, dispiace non poter contribuire a realizzare come ogni anno la fiaccolata guidata dagli alpini, dalle associazioni dei reduci, dalle scuole e dalla gente di Avesa, non poter ricordare tutti i caduti e la medaglia d’oro al valor militare che il presidente della Repubblica Scalfaro l’11 ottobre 1993 conferì alla città “Per la solidarietà del popolo di Avesa nello sgombero dell’immensa polveriera tedesca con la salvezza della città”.
Mario Rossi
[i] Esercito Cobelligerante Italiano è una denominazione con la quale si identificano quei reparti del Regio Esercito combattenti a fianco delle forze alleate angloamericane durante la seconda guerra mondiale nel corso della Guerra di Liberazione italiana, che coincise in buona parte con la Campagna d’Italia alleata.
Fu costituito in seguito alla riorganizzazione del Regio Esercito nel cosiddetto Regno del Sud, dopo l’annuncio dell’armistizio dell’8 settembre 1943 tra l’Italia e gli Alleati.
[ii] Alcune bancate di calcare, interessate da erosione carsica e crioclastica, hanno dato origine a ripari sotto roccia (Mezzena e Zampieri) che furono sede di frequentazione umana nel Paleolitico.
[iii] La grande polveriera di Avesa era ubicata nella cava di calcare “Valle” e “Campanile”, località Arzàn, poste nella collina Moscal, ovvero a nord del paese.
[iv] cfr. “La notte dell’apocalisse”, Lo scoppio della polveriera di Avesa – 26 aprile 1945, a cura di E. Cerpelloni e G. Peroni Edizioni Stimmgraf, Verona, 1995, p. 106.
[v] A Villa Cartolari vi era un Comando tedesco; anche in canonica vi erano tedeschi, l’avevano occupata. Altre postazioni tedesche erano nella villa dell’ingegner Enrico Corazza, sopra la polveriera, e nell’edificio delle scuole elementari di Avesa.
[vi] cfr. “La notte dell’apocalisse”, op. cit. p. 23.
[vii] Leonardo Dallasega, caporalmaggiore tedesco di origine altoatesina, rifiutandosi di sparare a don Domenico Mercante, parroco di Giazza, fu fucilato il 27 aprile dai tedeschi. Il sacerdote fu condannato a morte per aver difeso
Alcuni partigiani (cfr. La notte dell’apocalisse”, op. cit. p. 116).
[viii] Don Giuseppe Graziani (Bardolino il 2 maggio 1901 – Rovereto il 12 aprile 1992)
[ix] cfr. “La notte dell’apocalisse”, op. cit. p. 116 e p. 122).
[x] Rivestendo il delicato incarico di Cappellano della Brigata Nera, don Giuseppe Graziani riuscì a compiere numerose opere di bene non solo sotto il profilo spirituale, ma anche umano. Ad esempio, di nascosto dal Federale Valeri, riuscì a liberare tutti coloro che erano stati imprigionati con l’accusa micidiale di aver collaborato con gli inglesi (cfr. “La notte dell’apocalisse”, op. cit. p. 116).
[xi] cfr. testimonianza di Giuseppe Aprile in “La notte dell’apocalisse”, op. cit. p. 24.
[xii] cfr. “La notte dell’apocalisse”, Lo scoppio della polveriera di Avesa, op. cit. p. 23
[xiii] cfr. “La notte dell’apocalisse”, op. cit. p. 110).
[xiv] Don Giuseppe Graziani era stato decorato in virtù del suo eroico operato quale Cappellano Militare nella Guerra d’Etiopia e Capellano Militare della Xª Flottiglia MAS, nel Battaglione “Barbarigo”.
[xvi] cfr. “La notte dell’apocalisse”, op. cit., p. 108.
[xvii] cfr. “La notte dell’apocalisse”, op. cit., pp. 25-26.
[xviii] Adamo Degradi, “l’Arena”, 24 aprile 2015, p. 53.
[xix] cfr. “L’Arena”, 24 aprile 2015, p. 53.
[xx] cfr. “La notte dell’apocalisse”, op. cit., p. 110.
[xxi] cfr. “La notte dell’apocalisse”, op. cit. p. 106.