Dopo 86 anni dalla conversione della Basilica di Santa Sofia in museo, avvenuta con decreto di Mustafa Kemal Atatürk nel 1934, il luogo di culto cristiano più significativo d’Oriente torna ad essere moschea, la moschea di Aya Sofya.
Due settimane prima il Consiglio di Stato turco ( CLICCA QUI ) aveva annullato il decreto di Atatürk. Lo stesso giorno, il Presidente Erdoğan, con proprio decreto, aveva riaperto la Basilica al culto islamico e venerdì 24 luglio ha partecipato alla prima preghiera nella basilica riconvertita all’Islam. La data prescelta non è casuale perchè proprio il 24 luglio del 1923, con il trattato di Losanna, le potenze vincitrici avevano messo fine all’Impero Ottomano. La successione dei provvedimenti del governo turco la dice lunga sull’equilibrio dei rapporti tra autorità politica e autorità religiosa nelle terre dell’Islam.
«Assistiamo a un momento storico». «Ha termine una lunga separazione». Così ha sentenziato Ali Erbas, capo dell’autorità religiosa, nel corso della preghiera, pronunciata imbracciando una scimitarra, simbolo della conquista di Costantinopoli da parte degli Ottomani nel 1435.
A fronte di reazioni impietose, pronunciate delle autorità religiose ortodosse del mondo greco e russo, Papa Francesco, nella sua sconfinata saggezza, si è limitato ad affermare dopo l’Angelus in Piazza San Pietro: «Il pensiero va a Istanbul, penso a Santa Sofia. Sono molto addolorato».
Della tradizione cristiana Santa Sofia conserverà la bellezza dei mosaici bizantini, che Erdogan dichiara d’impegnarsi a garantire alla visita dei turisti. Dovranno essere oscurati però, con tecniche d’avanguardia, durante le ore di preghiera. I mosaici poi, che si trovano sui pavimenti, dovranno essere coperti da tappeti turchesi.
L’appello del Patriarca di Belgrado, Irenei, secondo cui Santa Sofia avrebbe dovuto restare sia chiesa che moschea, a testimonianza della simbiosi storica, della tolleranza e della fiducia reciproca tra le religioni, è caduta nel vuoto.
Del resto la decisione del Presidente della Turchia, più che fondarsi su motivazioni religiose, è dettata dalla ragione politica e va inquadrata nel solco della crisi economica interna, da contrastare, cercando di attribuire al Paese il ruolo della potenza che ambisce a giocare un ruolo guida, geopolitico, nel mondo musulmano. L’impegno militare in Libia, volto a contrastare il predominio di Egitto e Russia nell’area mediterranea, ne è la testimonianza più diretta.
Anche per questo, l’interpretazione dell’evento nella logica dello scontro tra religioni è del tutto fuorviante. La bandiera dell’islam sui minareti di Aya Sofya è molto di più della semplice conversione di una basilica dalle origini cristiane in una moschea del culto islamico. La pura e semplice reazione di Papa Francesco, volta ad esprimere semplicemente dolore umano, ne è la più evidente testimonianza.
Il Presidente turco usa la religione per fini politici, così com’è nella tradizione del mondo islamico. Papa Francesco non può inseguirlo su quella strada. Del resto, è noto che la comprensione di ogni dinamica del mondo musulmano non può mai essere circoscritta alla sfera religiosa, perché l’Islam è un fenomeno plurale, le cui leggi s’iscrivono, allo stesso tempo, nel testo della fede, del diritto, della politica. Soprattutto, la religione islamica non va intesa solo come stato della coscienza individuale (il foro interiore), perché comprende tutti gli aspetti della vita umana e deve portare non solo a guadagnare il regno dei cieli, ma anche il successo nella terra (B. Scarcia Amoretti).
Chiesa e moschea avrebbero dovuto restare l’una accanto all’altra, come simbolo visibile di tolleranza e di reciproca fiducia. Tuttavia, il dialogo interreligioso non ha alternative. Resta l’unica, dolorosa strada, auspicabile ed irrinunciabile, a condizione che ci sia la consapevolezza delle reciproche diversità. L’Islam infatti non è solo religione, ma molto di più. Per questo pare condivisibile la raccomandazione di Sami A. Aldeeb Abu-Sahlieh, palestinese di religione cristiana, autore di molti saggi sui diritti umani che, pur considerando il dialogo interreligioso un’oggettiva utilità per il mantenimento delle condizioni minime della pace nel mondo, ammonisce a che il confronto si radichi, sul piano etico, sui principi dell’assoluta franchezza e, sul piano giuridico, sul reciproco rispetto dei diritti umani.
Guido Guidi