E’ stato davvero panico da coronavirus quello alla base del Black Monday che ha visto crollare i mercati globali? No. Per lo meno, per quanto riguarda Wall Street. In quel caso, si è trattato platealmente di terrore da mancanza di
liquidità. E le prove ormai non sono più meramente circostanziali.
Delle vere e proprie lettere scarlatte del grande inganno posto in essere dalla Fed lo scorso settembre, quando definì temporaneo e unicamente legato alle necessità di finanziamento del terzo trimestre il suo ritorno diretto sul mercato dopo un decennio, attraverso l’istituzione di aste repo e term. E al netto della marcia indietro poco onorevole compiuta da Donald Trump rispetto alle sue promesse di intervento a livello fiscale, andate anzitempo in stand-by a causa della presunta indisponibilità di Nancy Pelosi a un incontro ad hoc questa settimana, Wall Street aveva parlato
chiaro fin dalla sessione overnight che aveva anticipato il tracollo degli indici del 9 marzo.
Lo mostrano plasticamente questi due grafici, il primo dei quali dimostra come ancor prima del suono della campanella, l’indicatore di stress del settore bancario Usa, il cosiddetto Fra-Ois, fosse schiazzato ai massimi dal 2011.
Interpellato con la garanzia dell’anonimato, un operatore sulla piazza londinese spiega così l’accaduto: “Con il nostro fuso orario abbiamo vissuto il pre-market americano in maniera diretta ed è inutile nascondersi dietro un dito: c’era totale assenza di liquidità da parte dei market-makers. Era come se il mercato fosse congelato un’altra volta, tanto che a New York hanno faticato a far aprire il mercato delle opzioni sulla volatilità, il Vix.
Il rischio? Che il catalizzatore del coronavirus ora amplifichi la situazione e, soprattutto, porti a una dislocazione del mercati finanziari simile a quella che abbiamo vissuto un decennio fa. Il worst-case scenario, ora come ora, è quello
di un’emersione plateale della scarsezza o mancanza totale di liquidità. In quel caso, chiunque abbia operato e sia esposto alla leva rischia di finire in guai seri”. Praticamente, la totalità del mercato.
Il secondo grafico è più focalizzato invece sul fronte europeo, visto che mostra proprio l’indice dei credit default swaps del Vecchio Continente di Markit, l’iTraxx Crossover, il quale traccia le 75 entità noninvestment grade più liquide.
Stando a dati di Refinitiv, il balzo registrato la mattina del 9 marzo è stato il maggiore a livello di singolo giorno di trading in assoluto e quota 550 punti base ha rappresentato il massimo dal 2013. Insomma, stress finanziario ovunque. E ai massimi livelli. Con o senza coronavirus, il quale impatta certamente sull’economia reale e sulle sue prospettive ma con orizzonti temporali che sono almeno trimestrali, non immediati come questi blocchi operativi nei gangli del sistema mostrano. Ed ecco che, al netto della notizia di una telefonata del segretario al Tesoro Usa,
Steven Mnuchin, a tutti i CEO delle principali banche statunitensi per organizzare un meeting alla Casa Bianca in settimana (mossa capace di portare a +400 punti l’apertura dei futures dei Dow Jones nella notta americana fra il 9 e il 10 marzo), questi altri due grafici sembrano piantare i proverbiali chiodi nella bara della residua credibilità della
Fed.
Dopo aver comunicato al mondo – in modalità tranquillizzante di ritorno alla normalità – di aver abbassato l’ammontare delle aste term e repo a partire dall’inizio di marzo, la Federal Reserve ha infatti emergenzialmente fatto marcia indietro: le aste term (quelle con liquidità oltre 1 giorno) sono state espanse a livello di disponibilità
da 20 a 45 miliardi, mentre le repo (liquidità pronta cassa a 1 giorno) da 100 sono passate a 150 miliardi. Nottetempo.
Il risultato è plasticamente mostrato dal grafico: il 10 marzo, giornata di asta doppia, la Fed New York ha immesso liquidità nel mercato per un totale di 216 miliardi di dollari.
Insomma, un diluvio assoluto. E una resa palese alla realtà, visto che la Federal Reserve per l’ennesima volta ha dovuto assumere una decisione “emergenziale” di ritorno all’espansione monetaria massima. Al riguardo, il guru del mercato repo, Zoltan Pozsar di Credit Suisse, ha scritto chiaramente nella sua nota: “Per stabilizzare il mercato, la Fed dovrebbe combinare tagli dei tassi con l’apertura di linee di credito sulla liquidità che includano anche l’uso delle swap lines, operare attraverso una facility per il mercato repo senza cap massimo di disponibilità e, se necessario, ricorrere a un Qe in senso più ampio”.
In parole povere e senza ricorso a tecnicismi, aumentare ulteriormente la valanga di liquidità offerta al sistema, senza limitazioni, prima che questo collassi del tutto. Ovviamente, il coronavirus e la crisi pandemica che ha portato con sé non hanno certamente operato da balsamo per mercati già sotto stress ma la realtà, giorno dopo giorno, pare emergere. Dai dati, oggettivi e inequivocabili. Un sistema come quello finanziario Usa che dallo scorso 17 settembre gode di finanziamento garantito dalla Fed su base quotidiana per circa 70-80 miliardi di dollari, è ridotto a non riuscire nemmeno a garantire la liquidità per l’operatività delle opzioni in apertura di trading.
E queste due ultime immagini parlano chiaro. La prima spiega perché la notizia della convocazione da parte di Steven Mnuchin dei Ceo bancari avesse fatto esplodere l’entusiasmo subito dopo il peggior crollo dal 2008 ma, di fatto, pone anche un interrogativo: dove sono finiti tutti i soldi?
Nel circolo vizioso del finanziamento dei buybacks e dell’acquisto di bond da piazzare poi come collaterale alla stessa Fed, per finanziarsi e investire ancora attraverso i trading desk che garantiscono dividendi?
Insomma, tutto a favore del grande casinò con sede a Wall Street. La seconda, invece, mostra un altro parallelo odierno con il 1933: quell’anno, infatti, negli Usa fu necessario bloccare per una settimana tutte le transazioni bancarie, ufficialmente per tamponare le criticità interne e ristabilire fiducia nel sistema finanziario.
Tradotto, evitare bagni di sangue e soprattutto bank-run di correntisti
nel panico. In attesa che, come oggi, la Fed mettesse una pezza. Per
quanto, però? E, soprattutto, a quale prezzo – anche di funzionamento
stesso delle dinamiche di “libero” mercato – sul lungo termine?