Ha ragione Paolo Cirino Pomicino. Per quello che ha scritto su Il Foglio ( CLICCA QUI  )e per quello che ne viene di conseguenza.

Della Democrazia Cristiana non si può fare uno spezzatino a proprio uso e consumo in occasione del ricordo dei singoli, grandi personaggi che quel partito ha espresso. Si rischia sempre, sicuramente in maniera involontaria, di lasciare in ombra la ricchezza complessiva di un fenomeno politico e umano cui deve molto il Paese.

Molto più articolato di quanto non faccia intravedere un solo personaggio di cui si celebra qualche ricorrenza. Molto più ricco di sfumature e di feconde, interne interlocuzioni rispetto al racconto che ne faceva e ne fa tuttora la cronaca giornalistica. Una stampa, allora ed oggi, abituata ad inseguire scandalismo, dietrologie e a premiare il “ gossip” ( termine che cerca di evitare l’uso del ben più corretto ” pettegolezzo”, perché questo costringerebbe ad un ripensamento).

Così, tutto era ed è ridotto a ambizioni, a  scontro personale o al solo gioco di potere. Certo, tutte queste cose c’erano. In ogni caso,  destinate a permanere in qualunque vicenda politica, perché la componente umana ne è parte fondamentale. C’erano, ma al tempo stesso erano portate ad un livello superiore, sublimate in una dialettica imposta dalla forza delle cose e dalla responsabilità generale verso l’insieme del partito e, soprattutto, l’insieme del Paese.

Quello di cui parla Paolo Cirino Pomicino, non è però questione che riguardi solo i “ basisti”. Costoro prendevano il nome dalla corrente di Base, che tra i suoi fondatori assommava personaggi come Pistelli, Marcora, Galloni, Granelli, De Mita, Riccardo Misasi, ma tanti altri andrebbero ricordati. Cioè i componenti della corrente di “ sinistra politica” del mondo cattolico democratico.

Essa faceva il paio, ma ci si scontrava pure animatamente, con  la “ sinistra sociale” interpretata da Carlo Donat Cattin: espressione più del mondo sindacale e collocata direttamente nel solco della prestigiosa tradizione di Grandi e di Pastore.

I “ basisti” ci tenevano a definirsi “ sinistra politica” perché intendevano accentuare l’attenzione per il sistema istituzionale e sottolineavano la necessità di trasportare sul piano delle relazioni politiche e parlamentari quegli elementi di novità colti nell’evoluzione della  società civile ed economica, dopo gli anni ‘60. Non è un caso se già nel 1969 i “ basisti” si ponero il problema della tenuta complessiva del Paese e parlarono, in un convegno organizzato a Firenze che fece clamore, di Patto istituzionale da ripensare.

Esistevano, però, ampi margini di coesistenza e di sovrapposizione di pensiero e di relazioni tra i due gruppi della sinistra dc. Come dimostrano i periodi in cui entrambi, pur immersi  persino troppo nella logica della sistemazione per correnti, parteciparono congiuntamente alla maggioranza di partito, condizionando in maniera importante altre componenti,  come erano quelle dei fanfaniani e dei dorotei.

Fu soprattutto con l’emergere del  pensiero di Aldo Moro che le due sinistre democristiane finirono per essere coinvolte in un comune processo di rigenerazione del partito e del Paese. Furono gli anni dello Statuto dei lavoratori, che molto deve a Donat Cattin, ma anche quelli preparatori e di sviluppo dello “ zaccagninismo”, in realtà forma più partecipata da parte dei giovani e dai cosiddetti “ esterni” di quel moroteismo che trovava una forza trainante nella capacità di leggere adeguatamente le cose del mondo e, in relazione a queste, riuscire a mantenere assieme tradizione e rinnovamento.

In questo insieme di tradizione e rinnovamento sta il segreto della lunga durata della Dc. Molti gli snodi di passaggio nel corso della propria esistenza. Ciascuno, molto difficile e controverso, In particolare, il cammino verso il centrosinistra e il periodo della “ intesa”’ con il Pci. Non sempre inizialmente accettati da tutti, ma alla fine, scaturiti dal possente incedere delle novità e trasformazioni proprie del tessuto economico, sociale e civile, finivano per imporsi.

Giulio Andreotti, da sempre collocato nell’immaginario collettivo a destra, pure partecipò alla stagione del confronto con il Partito comunista. In precedenza aveva, superate le prime riserve iniziali, accettato la collaborazione con il Psi di De Martino e Mancini.

Insomma, e ripeto dò ragione a Paolo Cirino Pomicino, la Dc non è una margherita di cui ciascuno possa pretendere di prendere solamente il petalo preferito.

E’ chiaro che all’indomani della morte di Aldo Moro, autentico martire innocente, tutto il sistema democristiano cominciò a mostrare, strutturalmente, limiti ed insufficienze. Intanto,  perché il suo crudele e barbaro delitto disvelò la determinazione di un complesso di “ nemici”, internazionali e domestici, a colpire il perno principale dell’assetto istituzionale e politico emerso dopo la Resistenza rappresentato dai democristiani.

Con la perdita di Aldo Moro, il collasso venne preparato dall’indebolimento di capi storici come erano stati Fanfani, Donat Cattin, Piccoli, dall’inadeguatezza dei loro epigoni e dalla crisi in cui finirono le componenti animate dallo spirito del confronto e del rinnovamento, sintetizzato con il termine “ zaccagninismo”. Un collasso che, per alcuni versi, resta ancora “ misterioso”. Nel 1994. infatti, letteralmente si dissolse un partito che solo pochi semestri prima aveva raccolto un consenso rimasto appena appena sotto la soglia del 30%.

Il ragionamento di Paolo Cirino Pomicino, così, sfocia inevitabilmente nella necessità che si cominci a ragionare su come si possa restituire un onore complessivo all’esperienza democratico cristiana.

Ovviamente, non si tratta di puerile revanchismo o di ragionare solo attorno a “ Mani pulite”, alle innocenti persone che essa ha distrutto, all’ingeneroso infangare un intero partito composto da un milione d’iscritti e centinaia di parlamentari che non si sono mai macchiati di alcuna colpa o non hanno commesso alcun reato.

Non si tratta di un tentativo assolutorio complessivo perché deviazioni vi furono ed anche gravi casi di corruttela. Simili a molti di quelli di cui ci parlano le cronache dei giorni nostri. A conferma che si pone sempre l’antico problema del potere, della ricerca del consenso o dei mezzi utilizzati in politica e, quindi, dei rapporti con il denaro, di come l’eletto e il responsabile politico sappiano destreggiarsi tra tentazioni ed opportunità, da una parte, e passione civica e spirito di servizio, dall’altra.

Il punto più importante  è quello della restituzione di un onore storico e culturale ad una intera fase della storia d’Italia, Un’Italia che, uscita dalle macerie della II Guerra mondiale, riuscì in poco più di quattro decenni a divenire la quarta nazione più industrializzata al mondo, garantì l’insegnamento scolastico generale e il servizio sanitario universale, contrastò il terrorismo senza creare un clima da guerra civile, avviò una presenza di pace soprattutto nel Mediterraneo, superò pacificamente le fratture con minoranze linguistiche in regioni di confine,  portò le famiglie ad essere le prime per il risparmio al mondo, segnò punti su punti in settori strategici e tecnologicamente avanzati nella siderurgia, la chimica, lo spaziale, il petrolchimico.

Ecco, dunque, l’ampiezza di un panorama retrospettivo che pure qualcuno deve cominciare a disegnare per consegnare quella storia ad una doverosa complessità d’analisi e di giudizio.

In ogni caso, resto sempre convinto che, proprio per il rispetto dovuto al grande patrimonio rappresentato dalla Democrazia cristiana, gli amici che ancora oggi ne usano nome e simbolo dovrebbero entrambi consegnarli, con i dovuti onori, all’Istituto Sturzo.

Questo può costituire un passo importante per avviare una nuova fase di ricomposizione della presenza del movimento dei popolari e dei cattolici democratici e, sulla base di una feconda discontinuità, consentire la revisione di  sommari, oltre che ingenerosi, giudizi storici.

Giancarlo Infante

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