La guerra in Ucraina è destinata davvero a subire una inarrestabile  escalation, come il cancelliere tedesco Olaf Scholz alcuni giorni fa ha dichiarato di temere ? In effetti, dopo nove mesi, la guerra sta mutando radicalmente e mostruosamente. Sta entrando in una fase “nuova e diversa” ( Giuseppe Sacco, Buio ma non silenzio in Ucraina, CLICCA QUI) in cui il “generale inverno” può aiutare l’aggressore a rendere ancora più terribile il conflitto, ma anche a mutarlo in qualità. Le “tecniche” belliche di distruzione sembrano  infatti moltiplicarsi in modo impressionante e proporsi, in forme inedite e inquietanti,  in quella che sempre di più appare come una guerra globale, capace non solo cioè di distruggere direttamente attraverso il ricorso alle armi le persone coinvolte dall’aggressione ( combattenti o civili non fa differenza), ma anche di distruggere o colpire un ambito molto più vasto e non più predefinibile (come avviene nel terrorismo classico),  mettendo fuori uso le infrastrutture indispensabili per la sopravvivenza quotidiana ( riscaldarsi, mangiare, curarsi ecc,), e semplicemente “delegando” il compito di “uccidere”, al freddo, alla fame, alla impossibilità delle cure mediche.

E’ evidente che la distruzione delle infrastrutture operate dai bombardamenti russi, renderanno impossibile illuminazione e riscaldamento in un paese che ha inverni polari ed impediranno il carico dei cereali sulle navi in partenza dai porti.  Più passa il tempo, più la guerra non solo diventa “intensa” ( guerra “ad alta intensità”), ma estende i suoi tentacoli ben al di là del suo territorio originario, senza bisogno alcuno di dichiarazioni di guerra. Una guerra senza limiti e confini, che si dilata al di là delle intenzioni originarie degli aggressori, ed una guerra che, a sua volta, impone all’aggredito un crescente ricorso ad armi sempre più efficaci e potenti, ad una escalation senza fine. Un inferno da cui nessuna delle parti può uscire.

Come pensare ad un negoziato o ad una tregua di fronte al dilagare della distruzione da parte dello Stato aggressore? Come giustificare il passo indietro necessario per questo? E, a maggior ragione, come pensare  poi, finalmente, a costruire la pace vera? Sembra quasi che i nuovi signori dell’ordine mondiale ci preparino un futuro spaventoso di guerra, sembra che siamo ormai destinati alla guerra, come ad un Covid permanente o ricorrente, e che dobbiamo tutti provvedere a investire di più in armamenti.  Sembra che siamo destinati ad una guerra vista come unico, o principale, mezzo per far fronte alle sfide epocali, per risolvere i conflitti tra le potenze, per sanare le controversie internazionali. Ad una violenza che taglia rapidamente i “nodi gordiani”, al posto del dialogo che costruisce con fatica reti di solidarietà e di vincoli.

Diciamolo chiaro: esiste una cultura della guerra- cioè una cultura incapace di pensare la pace e di rimuovere le fondamenta dei fatti bellici-  che ha ormai preso il sopravvento sulla cultura della pace. Ma esisteva davvero una cultura della pace anche prima di questo conflitto?  “ Io credo che non ci si sbaglia se si afferma che non esiste ancora una cultura della pace” ( “Cultura della pace e cultura della guerra”, ne Il Federalista, 1984), aveva scritto Mario Albertini nel lontano ormai 1984, quasi quaranta anni fa, in anni di serenità e pace per l’ Europa.  Oggi però  addirittura sembra davvero che una   “cultura della guerra” abbia  imprigionato le menti. Non c’è argomentazione di politico, politologo, stratega militare, sociologo, studioso di varie materie che ipotizzi una tregua o un cessate il fuoco che non sia contestata immediatamente in nome della necessità di non interrompere il conflitto. Solo la “vittoria finale”, non meglio precisata nei suoi termini concreti, potrà consentire una “pace giusta” a chi è stato aggredito. La “pace” è necessaria, ma, si sostiene, arriverà solo dopo la sconfitta dell’avversario , non prima, anche se l’avversario è potentissimo. Comincia a delinearsi la logica di una “crociata”, cioè di una guerra combattuta per motivi ideologici e religiosi, non per la difesa e  la re-instaurazione del diritto in una situazione concreta. Da un lato si parla di una guerra “metafisica”  contro il “male occidentale”, dall’altro di una guerra per la difesa del “mondo democratico”. Due falsificazioni e manipolazioni gemelle della realtà generate da questa disastrosa cultura.

Liberiamo il campo dagli equivoci. Cultura della pace- così come intesa nel pensiero federalista di Albertini –  non è generico “pacifismo”, non è desistenza di fronte alla forza, né rinuncia all’uso della forza, né acritica e ovvia esaltazione della pace. Non è nemmeno il pacifismo tradizionale. Il “pacifismo”, al di là dei suoi meriti storici,  quando non si limita alla negazione individualistica ed impotente – l’obiezione di coscienza- della guerra, cioè a una pura testimonianza, ma mira ad operare, rimuovendo le presunte cause dei conflitti armati, rischia sempre di finire  nella volontà manichea di una guerra alla guerra in cui c’è sempre la possibilità di una guerra che si presenti come l’ultima delle guerre( la “guerra per porre fine alle guerre” come doveva essere per alcuni  la “grande guerra” del 1914/18).

Del resto – e qui è una delle ragioni delle ambiguità persino della sinistra e dei democratici sul tema-  le principali culture politiche della modernità , il liberalismo, la democrazia, il socialismo anche marxista, non hanno mai assunto come fine ed obiettivo prioritario la costruzione della pace.

Il NO alla guerra non equivale infatti ad un SI’ alla pace. E rimuovere – o combattere- le cause della guerra non è costruire la pace.   Abbiamo assimilato in profondità l’idea della guerra come  elemento implicito ed ineliminabile della nostra realtà politica. Vi è una connessione- né  dichiarata, né chiara, ma nascosta e resistente- tra le arti dell’uomo, il “logos”, la capacità di dialogo che è l’anima della “politica” e le arti della bestia, cioè la violenza e l’astuzia. Machiavelli esemplifica questa connessione mostruosa nella figura del centauro Chirone, che è il precettore di Achille.  L’uomo- “animale politico”- costruisce le relazioni sociali, nella vita politica, basandosi sulla forza della ragione,  ma  in certi ambiti invece deve ricorrere necessariamente alle ragioni della forza. Abbiamo superato la “guerra civile”, cioè la guerra interna alla “polis”, allo Stato, ma non quella tra le comunità statuali.

E’ vero: ci siamo – o ci eravamo ?- abituati ad un ricorso eccezionale alla guerra, almeno per ciò che concerneva l’ Europa, e soprattutto all’idea della crescente impossibilità di una guerra nell’ epoca delle tecnologie nucleari, sino a dichiararla “aliena a ratione” come recitava l’ Enciclica Pacem in terris.  Ma la realtà di una guerra possibile, mai rimossa, è sempre rimasta sullo sfondo, ed oggi pare di nuovo materializzarsi  nel cuore d’ Europa   attraverso la logica della necessità.

Un tempo ormai lontano ( 1914/18) fu l’idea di una inevitabile rivoluzione ( proletaria, nazionalistica, popolare, antistatalista ecc.) a imprimere il crisma della necessità/inevitabilità alla guerra. Oggi, crollate le ideologie, è qualcos’altro che vi imprime la stessa cifra.  Oggi l’idea di una inevitabilità della guerra  ha una argomentazione più sottile e insidiosa, deriva semplicemente dalla specifica idea di “pace” che ha finito per dominare la cultura mainstream, una idea ormai inadeguata alle sfide del mondialismo globale.  C’è infatti una “pace” che non rimuove le radici e le basi della guerra, e con essa abbiamo a che fare. Con una acuta intuizione Papa Pio XII definì questa pace apparente come “pace fredda” ( sul calco dell’espressione “guerra fredda”), nello straordinario  Radiomessaggio natalizio del 1954.

Vale la pena riprendere un passaggio centrale  del testo del Radiomessaggio papale:

“Che cosa s’intende infatti nel mondo della politica per pace fredda se non la mera coesistenza di diversi popoli, sostenuta dal vicendevole timore e dal reciproco disinganno? Ora è chiaro che la semplice coesistenza non merita il nome di pace, quale la tradizione cristiana, formatasi alla scuola dei sommi intelletti di Agostino e di Tommaso d’Aquino, ha appreso a definire «tranquillitas ordinis ». La pace fredda è soltanto una calma provvisoria, il cui durare è condizionato dalla sensazione mutevole del timore, dal calcolo oscillante delle forze presenti; mentre dell’«ordine » giusto, il quale suppone una serie di rapporti convergenti in un comune scopo giusto e retto, non ha nulla. Escludendo poi qualsiasi vincolo d’ordine spirituale tra i popoli così frammentatamente coesistenti, la pace fredda è ben lontana da quella predicata e voluta dal divino Maestro, fondata cioè sull’unione degli spiriti nella medesima verità e nella carità, e che San Paolo definisce «pax Dei », la quale impegna innanzi tutto le intelligenze ed i cuori, e si esercita in armonica collaborazione di opere in tutti i campi della vita, non escluso quello politico, sociale ed economico”.

La “pace”, nel senso “alto” del termine, in realtà, non designa , secondo Pio XII, una situazione o una condizione, ma un ordine di relazioni convergenti verso uno scopo comune contraddistinto da giustizia. La pace è accordo e fusione delle intelligenze e delle volontà, è sublimazione di quella capacità di dialogo che chiamiamo “politica” e che non si capisce- in via strettamente logica- perché non  debba poter esistere nelle relazioni internazionali, come esiste da tempo nei rapporti interni.

La “pace fredda” o, potremmo dire, la  “pace senza intelligenza e volontà” è invece un’altra cosa. E’ una condizione precaria, liquida, sospesa alle percezioni diffuse, al timore,   al calcolo, alla competizione, che non comporta vincoli e che non rimuove l’ostilità che porta alla guerra. Essa mira alla fragile e precaria “coesistenza”.

La “coesistenza” è stata infatti a lungo  l’ obiettivo, modesto anche se efficace,  della “pace fredda”. Essa ha però attraversato due fasi diverse. La prima è stata la “coesistenza nel timore”, o anche “equilibrio del terrore ( atomico)” . Dopo la fine del secondo conflitto  mondiale e sino al crollo del comunismo nel 1989, garante della “pace” è stato in effetti soprattutto l’equilibrio tra i due apparti militar-nucleari di USA e URSS .  La “pace” trovava la sua ragion d’essere in un equilibrio che significava uguale peso dei due sistemi  militari che ormai avevano imposto la propria supremazia sulle relative sfere di influenza ( ragion per cui l’invasione sovietica  della Cecoslovacchia nel 1968 non suscitò alcuna resistenza armata, a differenza di quella dell’ Ungheria dodici anni prima, dato che la prima non rimetteva in discussione l’equilibrio né quindi la “pace fredda”). La guerra era come indefinitamente sospesa e questa era la “pace” o, come propriamente, e orgogliosamente si definiva, la “coesistenza pacifica”.

Ma una coesistenza fondata sul “vicendevole timore e reciproco disinganno” ( Radiomessaggio natalizio  del 1954 di Pio XII) non poteva  sopravvivere al crollo di uno dei due blocchi, di quello comunista, nel 1989 e cioè al crollo del meccanismo  “equilibrante”. Ed, in effetti, dal 1990 con la guerra dell’Irak iniziò il lento sdoganamento della guerra ri-legittimata come mezzo per risolvere le controversie internazionali.

La “pace fredda” avrebbe dovuto così basarsi su un altro tipo di coesistenza, che non includeva più la paura reciproca, perché ormai si prescindeva dalla esistenza dei due blocchi, che alcuni cominciavano addirittura a rimpiangere in quanto strumento di “pace”. E su cosa poteva reggersi una diversa coesistenza, se non sulla forza concreta della paura?   Non rimaneva che una forza astratta- e quindi, ancor meno controllabile ed , ancor  più inaffidabile o precaria.  La forza che, ancora secondo Pio XII,  stava tutta nella “immaginaria forza mistica dell’economia” derivante da una fede cieca nel libero scambio ( Radiomessaggio natalizio del 1954). La forza “pacificatrice” dell’economia creò una grande illusione, subito accettata da tutti, da Destra e Sinistra, quella della fine della storia ( Francis Fukujama) con il trionfo del modello occidentale liberaldemocratico.

Questa disastrosa fede universale nella forza magica dell’economia, che rendeva superflua ogni altra fede o fiducia, non deve stupire. Anche per il blocco comunista l’economia era stata la guida vera della storia, non diversamente da ciò che era, certo in modalità diverse, per i neoliberisti. L’economia infatti…”…con la sua capacità apparentemente illimitata di produrre beni senza numero, e con la molteplicità delle sue relazioni, esercita presso molti contemporanei un fascino superiore alle sue possibilità e su terreni ad essa estranei”( Radiomessaggio natalizio del  1954)

Dopo il 1990 questo ruolo equilibrante ed unificante, funzionale alla pace – anche se ideologico e surreale- doveva esser perciò affidato al libero mercato, cui si attribuiva “ un potere quasi magico”. “Uno dei suoi più ardenti proseliti- Richard Cobden-  non dubitava di paragonare il principio del libero scambio, quanto ad ampiezza di effetti nel mondo morale, al principio di gravità che regge il mondo fisico, assegnandogli, come effetti propri, il ravvicinamento degli uomini la scomparsa degli antagonismi di razza, di fede, di lingua, e la unità di tutti gli esseri umani in una pace inalterabile” ( Radiomessaggio natalizio del  1954).

L’ottimismo semplificante che nutriva questa ingenua e pericolosa fiducia in una “pace inalterabile”, impresse il suo marchio alla storia. Era un pacifismo “facile” e ingenuamente mondialista, in superficie  affascinante, specie  per i giovani, ma estremamente insidioso.

In Europa in particolare purtroppo esso segnò in profondità il processo di unificazione politica avviato dal trattato di Maastricht. Il problema della pace, e della sua priorità,  fu tragicamente sottovalutato, come quello di una politica estera e di sicurezza europea. Avremmo dovuto però capire subito che la nuova via per la pace ci  avrebbe spalancato l’abisso, perché Maastricht coincide quasi esattamente col “ritorno della guerra” nel cuore dell’ Europa ( cosa che allora non si percepì, dato che, nello stereotipo tradizionale, i Balcani erano considerati un’area extraterritoriale, una enclave anomala estranea all’ Europa, e la guerra a pochi chilometri dal confine italiano poteva apparire una guerra lontanissima), che è databile al giugno 1991, con l’intervento dell’armata jugoslava contro l’autoproclamata indipendenza della Slovenia e l’inizio di una serie di guerre che mostrarono subito l’inesistenza dell’ Europa nella politica estera, oltre che l’irresponsabilità dei comportamenti concreti dei vari Stati europei.

Ben altra era stata la consapevolezza di chi aveva iniziato la costruzione europea o di chi aveva preparato il trattato della CECA, che stupisce ancora oggi per la raffinatezza degli strumenti finanziari ( una autorità sovranazionale con capacità di imposizione fiscale sulle imprese senza la mediazione degli Stati!, ved. Giulia Rossolillo, L’attualità del regime finanziario della CECA, in :”Il Federalista” Anno LXIV, 2022)  che lo caratterizzavano, consentendogli di realizzare quella effettiva  solidarietà politica ed economica che l’attuale UE, nei suoi momenti migliori, non  è riuscita a replicare neppure su scala ridotta. Evidentemente quello era il modo di costruire la pace in senso profondo, di organizzare l’economia e di realizzare la giustizia, che funzionava benissimo anche quando si aveva a che fare con Stati che si erano combattuti e forse odiati per secoli.

Nel  1991  si era però  ormai dimenticato, ancor più che nella fase dell’ “equilibrio del terrore”,  che la PACE  è un ordine della comunità internazionale e che essa mira non alla coesistenza ma alla convivenza e soprattutto che cercare la PACE  è la prima legge di natura che il sovrano deve perseguire anche per Hobbes.  Si era dimenticato che una PACE europea mirante a garantire i diritti si era realizzata dopo l’ Atto di Helsinki del 1975 e proprio quella pace aveva consentito il crollo straordinariamente pacifico, dal suo interno, di un sistema politico continentale come il sistema comunista.

La “coesistenza” si era convertita, per un breve periodo-  oggi pare un miracolo!-  in “convivenza” vera  essendo una coesistenza nella verità, cioè nel rispetto concordemente riconosciuto -nell’ Atto di Helsinki 1975-  dei diritti umani, dei diritti altrui e dei doveri propri, della condivisione dei compiti, della cooperazione e della responsabilità delle proprie azioni. (segue)

Umberto Baldocchi

 

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