Sono passati cinque anni dal martirio dei 21 egiziani copti in Libia ma le immagini del loro assassinio restano impresse nei nostri occhi come una delle esecuzioni più barbare e cruente che siano mai state compiute dai jihadisti dello Stato Islamico. Per certi versi fu quasi l’apice della violenza del Califfato. Il video diffuso dal gruppo terroristico e che ha fatto il giro del mondo mostra i 21 lavoratori egiziani vestiti con tute arancioni, che vengono portati lungo una spiaggia nei pressi di Sirte da altrettanti miliziani integralisti bardati di nero e con il volto coperto. Una volta fatti inginocchiare con le spalle alla battigia vengono decapitati dalle lunghe lame brandite dai jihadisti. L’Isis disse a questi 21 uomini che se avessero rinnegato Gesù, sarebbe stata risparmiata la loro vita, questi risposero serenamente: “Signore Gesù Cristo”. L’acqua e la sabbia si tinsero di rosso.
Per la nostra opulenta civiltà occidentale e per milioni di cristiani che si trascinano stancamente alla Messa della domenica il massacro è stato uno shock che ha ridestato la fede. Ma l’esempio di questi martiri è stato soprattutto motivo di orgoglio per i confratelli della Chiese orientali che vivono ogni giorno la piaga delle persecuzioni in “odio alla fede”. Tanti sono stati i frutti del sangue di questi martiri sia per la Chiesa copta ortodossa sia per quella cattolica di rito copto. Tredici di essi provenivano dalla città egiziana di Al-Aour, diventata ora meta di pellegrinaggi. Alla loro memoria è stata edificata ad Al-Aour una chiesa, intitolata ai Martiri della Fede e della Patria, gremita di fedeli provenienti da tutto il Paese.
In un libro intitolato “I 21 – Un viaggio nella terra dei martiri copti”, lo scrittore tedesco Martin Mosebach racconta che gli abitanti del villaggio “parlano di miracoli”. Fra i vari eventi riportati c’è quello che ha visto uno dei figli delle vittime dell’eccidio jihadista cadere dal terzo piano di un edificio senza riportare ferite. Intanto la comunità cristiana dell’Egitto che conta oltre 8 milioni di fedeli, circa 10 percento della popolazione totale del Paese, gode di un relativo rafforzamento della condizioni della sicurezza, anche grazie alla politiche del presidente Al Sisi che vede in questa componete della nazione un elemento di stabilità e coesione. Tuttavia, anche nel recente passato la persecuzione all’ombra delle Piramidi contro la minoranza cristiana è stata durissima. L’ultimo grave attentato nel novembre del 2018, quando un commando di terroristi ha attaccato un convoglio formato da due bus che trasportavano fedeli diretti al monastero di San Samuele nella città di Minya, circa 250 km a sud ovest del Cairo. La carneficina lasciò sul terreno almeno 26 morti e 25 feriti.
Le violenze contro i fedeli copti sono sempre state cicliche nella storia del Paese dei faraoni, ma negli anni delle primavere arabe è stato registrato un aumento degli attacchi ai luoghi di culto e contro le proprietà dei cristiani. Si segnala inoltre il fenomeno del rapimento e della conversione forzata di centinaia di ragazze cristiane che poi vengo fatte sposare con uomini musulmani.
L’Egitto sembra però reagire contro questi atti che minino l’unità del Paese e nel gennaio del 2019 è stata inaugurata la più grande chiesa cristiana del Medio Oriente, capace di ospitare oltre 8.000 fedeli su uno spazio di 63mila metri quadrati, a 45 km a est del Cairo. La cattedrale è stata costruita a fianco della più grande moschea del Paese. Il presidente Al-Sisi, il capo della Chiesa copta ortodossa Tawadros II e l’imam di al-Azhar hanno partecipato alla doppia inaugurazione. Una tappa importante di un percorso di pacificazione che è stato irrorato dal sangue dei martiri copti.
Marco Guerra
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