L’anno prossimo ci saranno elezioni amministrative importanti. Ricordiamo pochi dati. Vanno al voto 1300 Comuni, fra i quali 21 capoluoghi di provincia. Tra questi ci sono Roma, Milano, Napoli, Torino cioè le 4 città più popolose d’Italia, alle quali va aggiunta Bologna (settima per popolazione, anch’essa capoluogo regionale). Sono Comuni di città metropolitane e sono capitali: città in cui conferme e cambiamenti delle amministrazioni risaltano nel quadro nazionale e ne modificano la lettura.
Quando si voterà? A regola di calendario a cavallo di maggio e giugno. Dobbiamo sperare, e fare quanto è in noi, e pregare, affinché per allora sia alle nostre spalle il COVID 19: anche in questo caso qualcuno cercherebbe di utilizzare il confronto elettorale per regolare vecchi conti, ma ci sarebbe comunque spazio per i programmi. Drammatico sarebbe uno scenario diverso, anche perché siamo poco allenati a fare quello che bisogna fare per prima cosa nelle crisi: prendere le vie d’uscita che portano lontano.
Inoltre alcune amministrazioni di grandi città in questa fase non sono al meglio. La gestione, sebbene controversa, della crisi sanitaria ha spostato i riflettori sulle Regioni, e nella partita che si gioca i sindaci non hanno un ruolo di primo piano, e neanche si agitano per acquisirlo ad ogni costo. Sintomo clamoroso di un tempo incerto e ambiguo è la rarefazione di iscrizioni alla gara. Scarseggiano gli olimpionici, specialmente. Ma se si aspetta di arrivare vicino per vedere meglio, nel frattempo finisce il tempo dei lungimiranti, vincono gli shortisti, che sono anche ribassisti.
Allora prendiamo il rischio di avviarci, intanto con due prime riflessioni. La prima riguarda la necessità di obiettivi alti e quindi di piani lunghi per conseguirli. La seconda è in realtà una domanda: la città è una comunità o un mucchio di vicini di casa? A chi parlare? Come raggiungerli?
La l. 56 del 2014 (Delrio) obbligò le città metropolitane a dotarsi di un piano strategico triennale. Diversi piani sono stati fatti, ma – con una certa difficoltà di ricerca – non tutti. Per esempio non riesco a trovare il Piano strategico triennale di Roma capitale. Alcuni sono stati già rinnovati. Hanno scadenze diverse, hanno spunti di comunicazione diversi. La legge Delrio afferma: “in attesa delle riforma del Tit. V….”. (il riferimento è al Titolo V della Seconda Parte della Costituzione, che comprende gli artt. da 114 a 133 e riguarda le Regioni, le Provincie e i Comuni). Viviamo quindi in un’incompiuta e l’inventario dei sospesi istituzionali è imponente. Ma non intendo polemizzare sui ritardatari, e neanche comparare i contenuti dei piani, cosa che pure sarebbe istruttiva.
Il punto è un altro: un piano triennale, che non ha neanche l’orizzonte di una consigliatura, come fa ad essere strategico? Anche se ben fatto, non rischia di essere il piano della ordinaria amministrazione? (È pur vero che in alcune città l’ordinaria amministrazione si è trasformata in sfida immane). Le nostre città metropolitane avrebbero bisogno di Piani strategici almeno decennali, meglio se ventennali o più. Così avviene in molte grandi capitali in Europa e nel resto del mondo, dove avere piani decennali e spesso ultradecennali è la normalità.
Ci sono diverse ragioni per procedere così. Le prime, ma non le sole, sono queste. Esemplifico su Roma. Senza un orizzonte strategico pluriennale l’ipotesi di poter ospitare un’Olimpiade spaventa gli amministratori, invece di entusiasmarli. Solo nei giorni scorsi a Roma (anzi sopra) si è cominciato a parlare del Giubileo 2025. Ma non è un imprevisto. I romani sanno che c’è un Giubileo ogni 25 anni e forse qualcuno straordinario in aggiunta. A Roma i grandi eventi non dovrebbero essere un imprevisto, ma una realtà quotidiana da accogliere con quella apertura che è un vero talento della città. Roma deve essere una città di grandi eventi.
Un piano strategico metropolitano deve impegnare una successione di Amministrazioni, anche di colore diverso. La vocazione di una città, di una capitale, di una metropoli, non cambia con le maggioranze. Se si cambia vocazione ogni cinque anni non c’è nessuna vocazione. Quale è la vocazione di Roma? Il Brand mondiale ereditato? La grande bellezza? La capitale dei servizi innovativi e delle propulsione innovatrice? Il carattere di capitale insieme europea e mediterranea che la distingue dalle altre capitali dell’Europa continentale? Il suo essere una multicapitale (la Santa Sede e il grande numero di università)? Di volta in volta viene enfatizzato un aspetto, ma Roma deve saperli comporre.
Far evolvere la città con fini e un disegno, in un paese dove le grandi opere non si fanno in meno di dieci anni, esige scelte e volontà di lunga durata. Esige di costruire un personale amministrativo che aderisca ai traguardi scelti e ne faccia la motivazione efficace. Ci vuole un ordinamento nuovo? Forse. Ci vogliono risorse rilevanti per grandi investimenti finalizzati? Certo. Ma avranno forza se nello slancio di una grande agenda.
Una città è però innanzitutto dei suoi cittadini. L’adozione di un piano strategico di lungo periodo, che muova dal riconoscimento e dalla scelta di una vocazione, arriva da un processo deliberativo che cerchi di coinvolgere tutti affinché tutti si riconoscano negli obiettivi. Una consultazione seria, concreta, sincera, organizzata bene, attenta a raccogliere idee da chiunque vengano, attiva partecipazione, rigenera appartenenza, predispone il terreno al senso civico.
Ecco allora un tema di vera sfida e innovazione politica. Come parlare ai romani? Le sezioni territoriali dei partiti non ci sono. Le associazioni “storiche” di rappresentanza di interessi, dopo la frammentazione degli ultimi decenni, non si sa con quanti degli appartenenti a ciascuna categoria dialoghino effettivamente. Molti romani non sono raggruppabili e raggiungibili secondo le classificazioni di un tempo. Le associazioni di promozione sociale, i movimenti, il Terzo settore, quello che si chiamava il mondo cattolico, sono mondi vivi e fecondi, che non si incontrano lungo le strade vecchie. L’ordine sparso delle aggregazioni civili, di volontariato, giovanili, delle nuove germinazioni di sussidiarietà (queste si da censire e valorizzare) è un mondo largamente ignoto alla politica. Mestieri, classi, identità, appartenenze, che fungevano da mappa sicura per l’interlocuzione politica sono cambiati e si sono mescolati. Restano solo i social?
Forse la costruzione di un Piano condiviso piano può essere un’occasione per invitare a mano a mano tutti a dire la propria. Altrimenti la città non diviene una comunità, ma resta un mucchio di vicini di casa.
Non basta varare proposte e progetti. Dobbiamo inventare nuovi linguaggi e nuovi incontri.
Vincenzo Mannino

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