L’esito dell’ultima tornata elettorale in termini di cittadini votanti ha segnato un punto di svolta: la crescita vertiginosa dell’astensionismo- addirittura più alto nelle suppletive dove il voto era politico, non amministrativo- sembra marcare un punto di svolta, ben oltre  l’altro aspetto politico costituito dall’ evidente arretramento delle Destre.  La politica sembra esser divenuta cosa superflua, da ultimo forse anche in conseguenza del clima di deferenza creatosi per lo squilibrio crescente tra l’ irrilevanza della rappresentanza politica e partitica e l’autorevolezza della figura del presidente del Consiglio.

Lo evidenzia perfettamente la modalità con cui si è affrontato ( e si affronta) il discorso su due  temi politici centrali che hanno toccato problemi reali della vita concreta dei cittadini italiani e ancor più li toccheranno vale a dire,  la revisione del catasto dei fabbricati  e la transizione ecologica. La “discussione” in merito – per usare un termine impegnativo- si è svolta sinora  in modalità iper-semplificate, tanto per usare un eufemismo.

A proposito del primo tema- la revisione del catasto- ci si è divisi  sul SI o sul NO. L’ on. Giorgia Meloni ha detto il suo no, chiaro e forte, interrompendo per un attimo la “titanica  lotta” contro il green pass e per la “libertà”.  La controparte ha ovviamente sostenuto il SI’. Non c’è stato nessun confronto di opzioni e affermazioni. E dopo le elezioni di nuovo la polemica è ripresa in analoga modalità, da parte della  Lega. Non c’è dubbio: siamo di fronte ad una politica che spenge il pensiero, come  qualcuno ha scritto.  Sulla transizione ecologica la “discussione” è stata infiammata da Greta Thunberg e dai giovani dei Fridays for future. Qui ci si è divisi tra chi vorrebbe la transizione SUBITO e chi la vorrebbe TRA UN PO’.  Ed anche sulla coerenza tra le promesse e i fatti.

Nel primo caso abbiamo la semplificazione riduttiva della democrazia  aritmetico- referendario- populista. La metà più uno, quella che “vince” è la parte che ha diritto di decidere. Che bisogno c’è di discutere? Si vota e si decide a maggioranza . Punto e basta. Altrimenti che democrazia è?

Nel secondo caso abbiamo invece una semplificazione diversa, ma  parallela alla prima, forse più insidiosa perché più ampiamente condivisa: l’illusione scientista-tecnocratica di una democrazia “delle competenze”. La politica la possono fare solo i competenti cioè gli scienziati accreditati dei vari settori. L’elettore deve limitarsi a scegliere i competenti veri, così come si scelgono i sindaci. Per questo il mantra rivolto ai  “politici” è : Ascoltate gli scienziati !  Gli scienziati  si sono da tempo pronunciati sul problema del clima e dell’ecologia. E perché i politici ancora non li seguono ?    Chi pensa a una “democrazia dei competenti” ( ovviamente la “competenza” è necessaria, non è però sufficiente!) ha in mente una “società dell’astrazione”,  una società guidabile con algoritmi, come è naturale pensare per chi da poco è uscito dall’adolescenza, ma non per chi deve governare i popoli.

C’è infatti una considerazione che i sostenitori della “democrazia dei competenti” non fanno ed è questa, per usare le parole di un filosofo ottocentesco, peraltro attualissimo: “ i mezzi [che il governo adopera] non possono essere ben diretti, se il governo non conosce il fine ultimo e complessivo della società. Ora conviene osservare che le scienze politiche speciali non inse­gnano, né possono insegnare mai qual sia il fine ultimo e comples­sivo della civile società; perocché esse hanno per oggetto delle loro investigazioni […] dei mezzi speciali, i quali non hanno per lor na­tura che de’ fini speciali, né producono che degli speciali effetti.”. Antonio Rosmini Filosofia della  politica ( 1836).  Non bastano pertanto gli esperti di economia e scienze della finanza, per delineare una buona revisione del catasto, come non basta un bravissimo esperto di tecnologie ecologiche per delineare una buona transizione ecologica. Gli esperti sono ovviamente indispensabili. Ma c’è bisogno anche di altro. Guardiamo allora un po’ più da vicino i due problemi.

Cominciamo col catasto. Il catasto non è uno strumento  neutro  di misurazione che mira a rendere trasparente situazioni reali per arrivare ad una corretta imposizione fiscale, uno strumento essenziale per far funzionare il meccanismo della concorrenza e dei mercati. E’ molto di più. E’ uno strumento complesso e delicatissimo ed è sempre stato, storicamente, un potentissimo strumento di indirizzo della politica economica, avendo un impatto significativo sulle aspettative di reddito, sulla consistenza dei patrimoni e delle proprietà e sulla loro circolazione, oltre che sulla distribuzione dell’imposizione fiscale ( di cui soltanto ci si preoccupa).

Il governo ha usato peraltro nella sua proposta diverse cautele. Nella Delega che delimita il tema a una  “modernizzazione degli strumenti di mappatura  degli immobili e revisione del catasto fabbricati” all’art. 7 si indicano criteri e principi direttivi cui si dovrà attenere la legge, precisando che oltre al corretto classamento delle fattispecie irregolari ( come gli immobili non censiti, quelli abusivi ed i terreni edificabili accatastati come agricoli)  essa dovrà mirare a fornire “una integrazione delle informazioni presenti in catasto da rendere a decorrere dal 1 gennaio 2026 ” concernente  tra l’altro “meccanismi di adeguamento periodico dei valori patrimoniali e delle rendite delle unità immobiliari urbane, in relazione alla modificazione delle condizioni del mercato di riferimento e comunque non al di sopra del valore di mercato”, con la precisazione  esplicita che “le informazioni rilevate secondo i principi di cui al presente comma non siano utilizzate per la determinazione della base imponibile dei tributi la cui applicazione si fonda sulle risultanze catastali”. Dove è evidente il tentativo di porre un freno al possibile/probabile effetto sulla imposizione fiscale della rivalutazione degli immobili.

Qui però ci sarebbe ben altro da discutere. Storicamente  il catasto non mira a colpire la mera attitudine a produrre un reddito, ma colpisce un reddito determinato con criteri di media sulla base della destinazione e delle caratteristiche del bene immobile, tanto da risolversi in un incentivo a una congrua utilizzazione di esso, nel senso che il reddito effettivo oltre il reddito medio non è tassabile. Nel nostro caso l’incremento di valore degli immobili- incremento inevitabile- quali dinamiche incentiverà in Italia dove già esiste un fortissimo squilibrio domanda-offerta nel mercato edilizio e siamo in presenza di un drammatico declino demografico senza casi simili almeno in Europa ? E quelle dinamiche di mercato saranno poi socialmente sostenibili oppure no? Sicuramente crescerà l’ incentivo ( in certi casi la necessità) a  mettere in vendita gli immobili, ma, nella situazione data, chi potrà acquistare gli immobili così rivalutati ? Non dovremo ricorrere ad un “mercato globale”? Un interrogativo inquietante, che impone di esplorare più a fondo la concreta sostenibilità  dell’intervento, per chiarire le modalità in cui dovrà esser perseguito l’obiettivo “tecnico” dell’adeguamento.

Non diversamente le cose stanno per la transizione ecologica.  Il problema non è transizione sì/ transizione no,  oppure  transizione ora o tra un po’, ma quale tipo di transizione ecologica vogliamo. Ma anche qui le forze politiche non sembrano voler affrontare i problemi essenziali, sembrano fermarsi al BLA BLA BLA ( qui, ma solo qui,  piena ragione a Greta!). Nessuno discute sul serio  quale debba essere oggi il rapporto dell’ecologia con l’economia, se individuare una priorità  ( all’ economia o all’ecologia ?) e a quale eventualmente darla. Nessuno discute quali categorie concettuali tenere in considerazione nel calcolo economico/ecologico che si dovrà fare. E, a proposito di questo calcolo, il capitale naturale, accanto al lavoro e al capitale in senso proprio, potrà essere introdotto nel calcolo o no? L’economia politica classica non lo includeva.

Come passare, nelle nostre economie, da una idea di terra ( o meglio ambiente naturale) che non è né merce né mezzo di produzione a una idea di capitale naturale, che funziona come un sistema integrato che tiene conto dei costi ambientali e sociali e dei costi differiti ( e non solo di quelli immediati) , un modello selettivo  verso l’innovazione,  che mira a realizzare una crescita sostenibile anche socialmente? Cosa può significare questa “rivoluzione concettuale” nella organizzazione della proprietà fondiaria in Italia e in Europa, soprattutto di fronte a nuovi inquietanti fenomeni, come il diffuso  land grabbing o accaparramento di terreni?

La politica, specie quando si ha a che fare con volontà di trasformazione, m non può esser fatta di SI e NO , da un “muro contro muro” tra alternative opposte e tra loro incompatibili. La politica urlata perciò non ha senso. Ma non ha senso nemmeno l’unanimità, il pensiero uniformato, la delega ai presunti esperti del settore, che perde di vista i fini complessivi e generali.  Agli inizi della repubblica quando si discuteva sulle riforme epocali, come la riforma agraria , non c’era una battaglia per il SI o per il NO, ma un confronto durissimo tra comunisti e democristiani sulla sostanza e sulle modalità della riforma. Questa era ed è la politica e questa è la democrazia. Alla politica di oggi   manca l’anima, cioè manca il  pensiero storico, la coscienza storica che consente di collegare tra loro le questioni politiche ed economiche e vederne la concreta interazione sociale, e di distinguere i fini ultimi e complessivi della società civile, che le singole scienze sociali –orientate esclusivamente ai mezzi- non vedono, né possono conoscere.

Senza coscienza storica non c’è futuro perché non c’è libera scelta dei fini effettivi, c’è solo inconscia coazione a ripetere. Dalla storia infatti,  anche da quella più tragica, impastata delle imperfezioni umane,   non vengono solo cattive notizie, ma anche buoni annunci. La  storia che oggi ci serve non è tanto la memoria delle tragedie umane – le tragedie da evitare- quanto la consapevolezza delle potenzialità umane spesso dimenticate- le potenzialità da valorizzare- . E’ nella storia che troviamo un  alimento decisivo per la speranza e per il futuro. E quindi per un vero progetto politico. Un progresso che oggi non può che essere il prodotto di una alleanza tra scienza e umanesimo. Solo così si potrà ridare un vero “baricentro”, non un vecchio  e trasformistico  “centro”,  alla vita politica, che ormai non può più funzionare  “drogata” dalla lotta “messa in scena” contro i nemici presunti ( immigrati, sovranisti, populisti e via dicendo), ma neppure “sedata” dal “valium” di una uniformità conformistica e opportunistica, senza convinzione e senza confronto critico , che vive di luce riflessa, alimentandosi dell’autorevolezza di un leader. Due aberrazioni entrambe da evitare. L’esito delle urne credo lo confermi.

Umberto Baldocchi

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