Questo intervento di Stefano Zamagni è in corso di pubblicazione  da La Società

 

  1. Introduzione

Uno dei temi su cui la più recente elaborazione di Dottrina Sociale della Chiesa si è maggiormente soffermata è lo scandalo della povertà, intesa quale indigenza, miseria subita, non certo quale virtù evangelica, liberamente scelta. Fame e deprivazioni non sono una novità del nostro tempo. Esse però ci appaiono oggi intollerabili in un modo diverso dal passato, dal momento che non sono la conseguenza di “fallimenti della produzione” dovuti alla scarsità di risorse a livello globale. Piuttosto, esse sono l’esito tragico di una carenza di istituzioni, sia economiche sia giuridiche, in grado di mobilitare, senza sprechi, le risorse – che ci sono e pure in abbondanza – distribuendone in modo equo i frutti. E’ così che – come ci è dato di constatare – l’aumento dell’interdipendenza economica, dovuta alla globalizzazione, può comportare che ampi segmenti di popolazione che vive in un luogo restino negativamente influenzati da eventi o da decisioni che vengono prese in luoghi anche molto distanti. Come Amartya Sen e altri hanno da tempo documentato, non vi sono solamente le povertà da depressione; vi sono anche le povertà da boom economico: vero e proprio paradosso di questo tempo. Ancora, l’espansione dell’area del mercato – fenomeno di per sé positivo – può comportare che la capacità di un gruppo sociale di accedere a livelli decenti di benessere dipende, in modo essenziale, da quel che decidono di fare altri gruppi sociali. Come l’evidenza empirica conferma, il prezzo di prodotti primari come riso, grano, caffè, cacao, ecc. può dipendere da quel che succede al prezzo di altri prodotti, senza che i produttori dei primi possano tutelarsi o “coprirsi” adeguatamente.

Riconoscere esplicitamente fenomeni del genere accresce la nostra responsabilità perché, a differenza di quel che accade con le risorse naturali, l’assetto istituzionale della società non è un dato di natura, ma è opera di uomini che vivono in società. Infatti, se è vero che le istituzioni (economiche e giuridiche) sono come le regole del gioco, del pari vero è che la scelta delle regole non è mai operazione assiologicamente neutrale. Nessuno meglio di John Rawls ha chiarito questo punto – troppo spesso trascurato persino nella letteratura scientifica – quando ha reso popolare la metafora del velo dell’ignoranza: i decisori sociali che, nella posizione originaria, sono chiamati a scrivere le regole del gioco devono dimenticare la propria collocazione sociale e i propri interessi per giungere all’accordo intorno a principi di giustizia sulla base dei quali si svolgerà il gioco di mercato. E’ dunque noto che regole diverse determinano esiti economici diversi e ciò a prescindere dal merito o dall’impegno profuso dai singoli agenti. Questo significa che non è affatto vero che, per ben funzionare, il mercato presuppone l’esistenza di un particolare insieme di regole piuttosto che di un altro. Ecco perché si deve parlare di scandalo e non di mero problema della povertà.

Per chiarire meglio il punto, si consideri che due sono le tipologie del male: naturale, l’una; umana (cioè morale), l’altra. Nei confronti del male naturale non c’è da fare altro che proteggersi e fare appello alla solidarietà e ad interventi in chiave compensativa. Il male naturale non resta però fisso nel corso del tempo, ma tende a tradursi in male morale ogni qualvolta gli esseri umani non si adoperano, per una pluralità di ragioni, per porvi rimedio in forza del principio di responsabilità. Nel tempo, sulla bilancia etica, il piatto del male naturale si va facendo più leggero e quello del male morale più pesante. (Dante e Hegel morirono di malaria, esempio tipico di male naturale, perché all’epoca non esistevano i vaccini. Morire oggi di malaria è un esempio, ancora troppo frequente, di male morale). Ebbene, la povertà di ieri era dovuta al male naturale; quella di oggi è dovuta al male umano, conseguenza di una perversa volontà di non fare ciò che sarebbe naturalmente possibile fare.

Che l’evento pandemico avrebbe accresciuto le diseguaglianze sia tra gruppi sociali sia tra territori era qualcosa di non prevedibile. Perché, come lo storico austriaco Walter Scheidel ha documentato nel suo monumentale volume La grande livellatrice, (2019), nei secoli passati le epidemie hanno avuto l’effetto di ridurre le diseguaglianze sociali e le povertà. Occorre dunque essere consapevoli di una tale “novità” e adoperarsi per escogitare vie nuove di intervento. Come documenta J.A. Ocampo della Columbia University, la sindemia COVID-19 ha gettato nell’estrema povertà circa 115 milioni di persone, mentre la fascia più ricca di soggetti ha incrementato la propria ricchezza di più del 25%. D’altro canto, come ci riferisce la FAO, i prezzi dei generi di primaria necessità sono aumentati, in media, del 28%, con punte del 44% per i prezzi di grano, riso, mais.

La strategia per la rinascita post-Covid non potrà avere successo fin tanto che ci si ostina a muoversi entro il modello di ordine sociale basato su Stato e Mercato. (Il cosiddetto pendolo lib-lab). Occorre piuttosto affrettare i tempi per implementare il modello Stato-Mercato-Comunità, la cui cifra è quella di riconoscere ai corpi intermedi della società – come li chiama la nostra Carta Costituzionale – un ruolo non meramente complementare a quel che fanno gli altri due pilastri, né una funzione semplicemente emergenziale: si ricorre e si invoca la Comunità solo nelle emergenze. In sostanza, si tratta di dare ali robuste al principio di sussidiarietà circolare, un principio che storicamente nasce e si afferma nel nostro paese a partire dal XIII secolo e che poi esce di scena – per ben note ragioni – già a far tempo dal XVIII secolo. Tornare a scoprire le origini e gli sviluppi iniziali della sussidiarietà è, oggi, un’operazione culturale della massima rilevanza.

 

  1. Dalla denuncia degli effetti alla ricerca delle cause.

Del fenomeno della povertà sappiamo ormai quasi tutto: come si misura, nella multidimensionalità del suo manifestarsi come privazione di risorse, di accesso alla salute, di educazione, di sicurezza; quali effetti essa va producendo a livello sia individuale sia sociale; quali i fattori causali oggi principalmente responsabili; dove si annida; e così via. Non sappiamo però concettualizzarla, perché non ne conosciamo la antologia, e quindi finiamo per prenderla come qualcosa di connaturato alla condizione umana oppure come una sorta di male necessario per consentire ulteriori balzi in avanti della nostra società. Insomma, come qualcosa con cui imparare a convivere, così come in altre epoche storiche il genere umano ha saputo fare con le “stravaganze” della natura. L’accettazione supina del factum toglie così ali e respiro al faciendum. E infatti, mentre abbondanti sono le analisi del fenomeno, assai scarse sono le proposte credibili per farvi fronte.

Eppure, già Condorcet nel suo celebre Esquisse d’un tableau des progrés de l’esprit humain, del 1794 aveva scritto: “E’ facile dimostrare che le fortune tendono naturalmente all’eguaglianza e che la loro eccessiva sproporzione o non può esistere o deve rapidamente cessare, se le leggi civili non stabilissero mezzi artificiosi per perpetuarle o per riunirle” (Einaudi, Torino, 1969, p.171). Quanto a significare che l’aumento endemico delle disuguaglianze e la persistenza di sacche della povertà sono conseguenza dell’assetto istituzionale della società (“le leggi civili”), cioè delle regole del gioco che essa sceglie di darsi. Come si può comprendere, si tratta di una presa di posizione veramente notevole che dimostra come Condorcet avesse afferrato che il mercato non è solo un meccanismo efficiente di regolazione degli scambi. E’ prima ancora un ethos che induce cambiamenti profondi nelle relazioni umane e nel carattere degli uomini. Osservo di sfuggita – perché non ho qui lo spazio per approfondire l’argomento – che le Sacre Scritture (Antico e Nuovo Testamento) si soffermano quasi esclusivamente sul dovere che i ricchi hanno di prendersi cura dei poveri. Non è dunque la società che deve impegnarsi per ridurre le povertà e le diseguaglianze. (Si veda per uno studio rigoroso, il saggio di M. Hirschfeld, “Rethinkig Economic Inequality. A theological perspective”, Journal of Religious Ethics, 2019). E’ questa una linea di pensiero che si protrae fino ai Padri della Chiesa, che accettano implicitamente l’idea, secondo cui la povertà sia qualcosa di connaturato al funzionamento della società, e rispetto alla quale non ci sarebbe altro da fare che appellarsi alla compassione e alla carità. Basterebbe leggere il Praeceptum 3.4 di S. Agostino per rendersene conto. E’ solo con l’Aquinate e soprattutto con il pensiero della Scuola Francescana (Bonaventura da Bagnoregio, Luca Pacioli, Duns Scoto et Al.) che la prospettiva muta radicalmente.

Il punto importante da fissare è che l’economia di mercato è compatibile con diverse distribuzioni delle risorse tra gli agenti economici e con diverse regole del gioco economico – si pensi alle regole riguardanti le norme sui brevetti oppure quelle sulla regolazione dei mercati. E a seconda delle regole adottate, il mercato genererà prezzi diversi, diverse distribuzioni del reddito. Non è dunque vero che, per bene funzionare, il mercato presuppone un unico insieme di regole. La scelta del pacchetto di regole è compito essenziale della politica e non dell’economia – ci ammonisce papa Francesco nel cap.V di Fratelli tutti – sempre che con l’Aquinate si voglia considerare la politica come l’attività umana specificamente volta al bene comune. Il capitalismo è uno, ma le varietà di capitalismo sono tante. E le varietà mutano a seconda della matrice culturale prevalente nelle diverse società. Se così non fosse, perché mai l’attuale pontefice avrebbe lanciato, nel giugno 2019, il progetto “Economia di Francesco”?

Una questione specifica, eppure di grande rilevanza in questa stagione segnata dalla sindemia da COVID-19, è la relazione tra stato nutrizionale delle persone e la loro capacità di lavoro. I poveri possiedono solamente un potenziale di lavoro; per trasformarlo in forza lavoro effettiva, la persona necessita di adeguata nutrizione. Ebbene, se non adeguatamente aiutato, il malnutrito non è in grado di soddisfare questa condizione in un’economia di libero mercato. La ragione è semplice: la qualità del lavoro che il povero è in grado di offrire sul mercato del lavoro è insufficiente a “comandare” il cibo di cui ha bisogno per vivere in modo decente. Come la moderna scienza della nutrizione ha dimostrato, dal 60% al 75% dell’energia che una persona ricava dal cibo viene utilizzata per mantenere il corpo in vita; solamente la parte restante può venire usata per il lavoro o altre attività. Ecco perché nelle aree povere si possono creare vere e proprie “trappole di povertà”, destinate a durare anche per lunghi periodi di tempo.

Quel che è peggio è che una economia può continuare ad alimentare trappole della povertà anche se cresce a livello aggregato. Ad esempio, può accadere – come in realtà accade – che la crescita economica, misurata in termini di PIL pro-capite, incoraggi i contadini a trasferire l’uso delle loro terre dalla produzione di cereali a quella della carne, mediante un aumento degli allevamenti, dal momento che i margini di guadagno sulla seconda sono superiori a quelli ottenibili dai primi. Tuttavia, il conseguente aumento del prezzo dei cereali andrà a peggiorare i livelli nutrizionali delle fasce povere di popolazione, alle quali non è comunque consentito di accedere al consumo di carne. Il punto da sottolineare è che un incremento nel numero di individui a basso reddito può accrescere la malnutrizione dei più poveri a causa di un mutamento della composizione della domanda di beni finali. Si osservi, infine, che il collegamento tra status nutrizionale e produttività del lavoro può essere “dinastico”: una volta che una famiglia o un gruppo sociale sia caduto nella trappola della povertà, è assai difficile per i discendenti uscirne, e ciò anche se l’economia cresce nel suo complesso.

Quale conclusione trarre da quanto precede? Che la presa d’atto di un nesso forte tra “institutional failures”, da un lato,  scandalo della fame e aumento delle disuguaglianze globali, dall’altro, ci ricorda che le istituzioni non sono – come le risorse naturali – un dato di natura, ma regole del gioco economico che vengono fissate in sede politica. Si osservi che i “fallimenti delle istituzioni” altro non sono che le “strutture di peccato” di cui per primo ha scritto Giovanni Paolo II  nella sua “Sollecitudo Rei Socialis” del 1987. E’ veramente strano, per tacer d’altro, che pure entro il mondo cattolico quasi mai si faccia riferimento a questa categoria così centrale della recente DSC! Se la fame dipendesse – come è stato il caso fino agli inizi del Novecento – da una situazione di scarsità assoluta delle risorse, non vi sarebbe altro da fare – come ho ricordato sopra – che invitare alla compassione ovvero alla solidarietà. Sapere, invece, che essa dipende da regole, cioè da istituzioni, in parte obsolete e in parte sbagliate, non può non obbligarci ad intervenire   per modificarle. Si veda, al riguardo, il fondamentale lavoro di Katherine Pistor, The code of capital. How the law creates wealth and inequality, Princeton University Press, Princeton, 2019.

 

  1. Dogmi dell’ingiustizia e strutture di peccato.

Si pone la domanda: se la povertà persiste non a causa della mancanza di risorse, né per la deficienza di know-how tecnologico, né a causa di particolari avversità che colpiscono certe categorie di persone, a cosa essa ultimamente si deve e soprattutto perché non suscita moti di ripulsa nei confronti di tale stato di cose? La risposta che considero più plausibile è che ciò è dovuto alla continua credenza nelle nostre società nei dogmi dell’ingiustizia. (Pareto vedeva nella diseguaglianza addirittura una sorta di legge ferrea cui il genere umano mai si sarebbe potuto sottrarre). Due sono basicamente i dogmi in questione. Il primo afferma che la società nel suo insieme viene avvantaggiata se ciascun individuo agisce per perseguire il proprio beneficio personale. Il che è doppiamente falso. In primo luogo, perché l’argomento smithiano della mano invisibile postula, per la sua validità, che i mercati siano vicini all’ideale della libera concorrenza, in cui non vi sono né monopoli né oligopoli, né asimmetrie informative. Ma tutti sanno che le condizioni per avere mercati di concorrenza perfetta mai possono essere soddisfatte nella realtà. In secondo luogo, perché le persone hanno talenti e abilità diverse. Ne consegue che se le regole del gioco vengono forgiate in modo da esaltare, poniamo, i comportamenti opportunistici, disonesti, immorali ecc., accadrà che quei soggetti la cui costituzione disposizionale è caratterizzata da tali tendenze finiranno con lo schiacciare gli altri. Del pari, sappiamo che l’avidità intesa come passione dell’avere è un tratto caratteristico della natura umana. Se allora nei luoghi di lavoro si introducono forti sistemi di incentivi – da non confondersi con i  sistemi premianti – è evidente che i più avidi tenderanno a sottomettere i meno avidi. In questo senso, si può affermare che  non esistono poveri per natura, ma per condizioni sociali; per il modo cioè in cui vengono disegnate le istituzioni economiche.

L’altro dogma dell’ingiustizia  cui sopra alludevo è la credenza che l’elitarismo vada incoraggiato perché efficiente e ciò nel senso che il benessere dei più cresce maggiormente con la promozione delle abilità dei pochi. E dunque risorse, attenzioni, incentivi, premi devono andare ai più dotati, perché è all’impegno di costoro che si deve il progresso della società. Ne deriva che l’esclusione dall’attività economica – nella forma, ad esempio, di precariato e/o disoccupazione – dei meno dotati è qualcosa non solamente di normale, ma anche di necessario se si vuole accrescere il tasso al quale aumenta il PIL. Giungono opportune, a tale riguardo, le parole profetiche pronunciate da Giovanni Paolo II nel suo ultimo discorso in pubblico del 29 novembre 2004 in Sala Nervi in Vaticano, ricevendo in udienza la Comunità Papa Giovanni: “Una società che discrimina in base all’efficienza non è meno disumana di una società che discrimina in base al sesso, alla religione, all’etnia. Una società di umani che dia spazio solo ai sani, ai perfettamente autonomi e funzionali, non è una società degna di tale nome”.

Dove trovano, oggi, il loro sostegno i due dogmi di cui sopra? E’ bensì vero che la diseguaglianza non è caratteristica tipica delle società capitalistiche; ma del pari vero è che mai come in questi ultimi decenni essa ha raggiunto livelli a dir poco preoccupanti per i suoi effetti sia sulla democrazia sia sulla pace. Già Aristotele nella Politica aveva avvertito che la democrazia postula una relativa uguaglianza per quanto concerne “il possesso di beni in quantità misurata e adeguata” e “un benessere duraturo per tutti”. Ancora più evidente è l’impatto della ineguaglianza sulla pace, perché quando essa supera una certa soglia critica, i gruppi sociali che si vedono preclusa la possibilità di agganciare il carro di testa del convoglio tendono ad organizzarsi per ottenere con la forza o la violenza la ridefinizione delle regole di accesso alle risorse. Ebbene, non esito a rispondere all’interrogativo sopra posto dicendo che all’origine di quei dogmi vi sono due fenomeni che più di ogni altri connotano l’epoca presente: la globalizzazione e la  rivoluzione del digitale, quella delle nuove tecnologie infotelematiche. Si tratta di fenomeni di per sé indipendenti l’uno dall’altro, ma i cui effetti si sono intrecciati rafforzandosi reciprocamente.

La globalizzazione – da non confondersi con l’internazionalizzazione delle relazioni economiche in esistenza da tempo – è un processo che aumenta bensì la ricchezza complessiva (e dunque rappresenta un gioco a somma positiva), ma determina, al tempo stesso, vincitori e vinti. In altre parole, la globalizzazione tende di per sé a ridurre le povertà in senso assoluto, e ad aumentare quelle in senso relativo. Tecnicamente, si considera “povero in senso assoluto” chi dispone di meno di due dollari al giorno da destinare all’acquisto di beni di primaria necessità. Secondo questa definizione – fatta propria dalle Nazioni Unite – oggi nel mondo ci sono un miliardo e 200 milioni di esseri umani il cui reddito si colloca al di sotto di questa soglia: si tratta di coloro che muoiono di fame e di stenti. È stato stimato, che, se negli ultimi 35 anni non avesse iniziato ad operare il processo di cui stiamo parlando, i poveri assoluti oggi sarebbero oltre due miliardi. Ciò riconosciuto, occorre con altrettanta franchezza dichiarare che la globalizzazione accresce  le povertà in senso relativo, cioè le diseguaglianze tra i diversi gruppi sociali; e ciò avviene  non solamente tra Nord e Sud del mondo, ma anche all’interno degli stessi paesi avanzati.

Il punto è che globalizzazione e nuove tecnologie sono meccanismi molto efficienti nella produzione di nuova ricchezza, ma non lo sono affatto nella redistribuzione della stessa tra tutti coloro che hanno partecipato alla sua creazione. La spiegazione è che i due fenomeni hanno a che fare, in primis, con la conoscenza e la capacità tecnologica. Si tratta di beni economici particolari, la cui natura non è facilmente riconducibile alle familiari variabili economiche, cioè prezzi e quantità, dal momento che quanto è in gioco è costituito dai processi di apprendimento. Sapere come un macchinario deve funzionare è conoscenza tecnologica; farlo funzionare in modo efficiente è capacità tecnologica. Tale distinzione discende da una concettualizzazione della tecnologia diversa da quella in uso fino a qualche tempo fa e ha implicazioni rilevanti per il cosiddetto processo di trasferimento  delle tecnologie, soprattutto quando questo ha luogo tra aree geografiche connotate da forti differenze  economiche e culturali. La novità è costituita dal fatto che l’insieme delle conoscenze incorporate in una data tecnologia solo in parte  sono codificabili – e dunque facilmente imitabili da altri o altrove. Per lo più, esse sono tacite, specifiche di determinate persone e istituzioni, acquisite tramite l’educazione, l’esperienza e la ricerca, e pertanto non trasferibili a costo nullo. Questa componente tacita fa sì che le capacità tecnologiche aumentino per il tramite di un processo di accumulazione che è essenzialmente di natura incrementale.  D’altro canto,  il canale più importante di accrescimento delle capacità tecnologiche è l’attività di produzione stessa.

Quali le conseguenze di tutto ciò ai fini del discorso sull’aumento delle povertà relative? La più rilevante è questa: la conoscenza può ben essere offerta socialmente, ma per essere messa a frutto deve essere assorbita individualmente. Come a dire che sono i limiti alla capacità di assorbimento della conoscenza a rappresentare le principali barriere alla sua diffusione. Ecco perché non è lecito sperare di arrivare – come ancora tanti ostinatamente ritengono – ad una maggiore equità per mezzo della sola liberalizzazione degli scambi internazionali di beni e servizi. Quel che accade è che mentre i lavoratori superqualificati vedono progressivamente aumentare la loro posizione di benessere, quelli a qualificazione intermedia o coloro che soffrono di rapida obsolescenza intellettuale vedono peggiorare le loro condizioni di vita. Più in generale, il punto che merita di essere sottolineato è che i sistemi economici basati sulla produzione di idee tendono, coeteris paribus, a generare più ineguaglianze dei sistemi basati sulla produzione di materie prime e merci.

 

  1. Anziché una conclusione

Non posso lasciare l’argomento senza fare menzione del recente lavoro di Anne Case e di Angus Deaton  (premio Nobel dell’economia), Morti per disperazione,  Bologna, Il Mulino, 2019. “Ciò che sta entrando in crisi – scrivono gli eminenti economisti americani – è la natura e il funzionamento del capitalismo stesso. Nel momento in cui i sindacati svaniscono, le imprese si consolidano grazie a più monopolio e più monopsonio. La bilancia sociale è sempre più spostata dal lavoro al capitale e ciò è sostenuto da una costante deriva dei sistemi legali a favore della proprietà… Questo – concludono gli autori – non è capitalismo, un sistema in cui i mercati in competizione producono benefici per tutti; è più simile ad un racket (sic!) per la redistribuzione degli utili verso l’alto che a un motore di prosperità generale”. Nel 2014, papa Francesco nella Evangeli Gaudium aveva espresso il medesimo concetto, criticando la tesi del “trickle-down effect” (effetto di sgocciolamento) e venne severamente criticato, anche da alcuni settori del mondo cattolico. Ma il tempo è galantuomo!

Ha scritto Albert Camus in Nozze: “Se c’è un peccato contro la vita, è forse non tanto disperarne, quanto sperare in un’altra vita e sottrarsi all’implacabile grandezza di questa”. Camus non era credente, ma ci insegna una verità: non bisogna peccare contro la vita presente squalificandola, umiliandola. Non si deve perciò spostare il baricentro della nostra fede sull’aldilà tanto da rendere insignificante il presente: peccheremmo contro il fatto dell’Incarnazione. Si tratta di un’opzione antica che risale ai Padri della Chiesa che chiamavano l’Incarnazione un Sacrum Commercium per sottolineare il rapporto di reciprocità profonda tra l’umano e il divino e soprattutto per sottolineare che il Dio Cristiano è un Dio di uomini che vivono nella storia e che si interessa, anzi si commuove, per la loro condizione umana. Amare l’esistenza è allora un atto di fede e non solo di piacere personale. Il che apre alla speranza, la quale non riguarda solamente il futuro, ma anche il presente, perché abbiano necessità di sapere che le nostre opere, oltre ad una destinazione, hanno un significato e un valore anche qui e ora.

Stefano Zamagni

 

 

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