Il “rischio ragionato” che Draghi propone al Paese esige – e non è un gioco di parole – che vi sia una diffusa e solida “ragionevolezza”. A cominciare dagli attori del sistema politico, stipati in una maggioranza in cui il sentimento di un impegno solidale e comune nell’ interesse generale del Paese, convive con un sommovimento  che assomiglia a quell’inquieta e rissosa ricerca della miglior postazione di partenza che mostrano i cavalli al Palio di Siena, prima che venga rilasciato il canapo che da’ il via alla corsa.

Del resto, è comprensibile che sia così: l’ “unità nazionale” o già c’è e rappresenta il frutto di una concordia effettivamente maturata nel libero confronto tra le forze politiche, cosicché il governo che ne consegue altro non è se non il fisiologico approdo di un dato  sostanzialmente già acquisito oppure non può essere disposta per decreto. Nel nostro caso è stata imposta dall’ emergenza, suggerita dalla ghiotta occasione dei miliardi europei, suggellata dall’autorevolezza del Presidente del Consiglio, ma pur sempre esposta alle intemperie di una stagione nebulosa.

Chi sperava che il governo  Draghi potesse rappresentare un momento di tregua – ma anche un supplemento d’anima, se così di può dire, per un sistema politico sfibrato da una dialettica slabbrata ed inconcludente – tale da consentire che le forze politiche, ciascuna per la sua parte, ridefinissero il loro profilo, cercando di assumere, pur nella necessaria dialettica, un qualche orientamento comune effettivamente ispirato ad una responsabilità più coesa nei confronti del Paese, ha già avuto modo di ricredersi.

Assistiamo alla incredibile sceneggiata di Salvini che vuole accaparrarsi la cosiddetta “apertura” come una vittoria di parte, volendo far credere ai propri elettori di essere tornato stabilmente – Draghi o non Draghi – come si conviene ad un vero “Capitano”, sulla plancia di comando, dopo l’ubriacatura ( politica, s’intende) del Papeete. Ma anche sull’altro versante, pur con ben altro stile, sostanzialmente il maggior impegno della nuova segreteria del PD pare, anche qui, orientato soprattutto a disegnare il campo in vista della ripartenza che necessariamente si impone dopo l’attuale governo.

La virata del PD, a dispetto dell’orientamento che pare avesse con Zingaretti, verso il maggioritario, ha, infatti, il sapore di una riaffermazione del ruolo egemonico che il partito di Letta intende esercitare nei confronti degli altri possibili interlocutori di un centro-sinistra che dovrebbe poi reggersi con una sorta di protesi ortopedica garantita da Conte, pur sempre sub-judice al benevolo beneplacito  o meno dell’Elevato, un soggetto che, in quanto tale, sfugge ovviamente alle normali categorie del confronto politico ed introduce, pertanto, nel complessivo sistema del polo di sinistra – o sia pure “centro-sinistra” che sia – un elemento di imponderabilità preoccupante.

Non si è compreso o non si vuol comprendere che il fallimento della cosiddetta “vocazione maggioritaria” è stato determinato anche dalla sua presunzione di voler prescindere da una articolazione  delle culture politiche storicamente insediate nella cultura profonda del popolo italiano, che non si prestano facilmente a quella “reductio ad unum” che viene pretesa in nome del cosiddetto “voto utile”.

Non a caso, molti, troppi – e molti cattolici tra questi – hanno preferito disertare le urne. Sarebbe bene che nel polo progressista – e dove, se non qui ? –  si prendesse atto di quanto sia opportuno che, in un frangente delicato per la stessa vita democratica del Paese, venisse valorizzato il naturale pluralismo delle culture e delle posizioni politiche, che rappresenta una dato indeclinabile di una società aperta.

Senza che ciò comprometta la “governabilità” che è pur sempre affidata all’istinto democratico ed al sentimento di responsabilità delle forze politiche, piccole o grandi che siano. Pare che, al contrario, dovendosi necessariamente prendere atto , se vogliamo per un mero dato aritmetico, della improponibilità dell’originaria vocazione maggioritaria, se ne voglia riproporre, sia pure in forme più eleganti, un improbabile surrogato.

Ma per tornare al “rischio ragionato” di cui Draghi ha il coraggio di assumere, in prima persona, la responsabilità, va detto che si accompagna alla coscienza del fatto che, sostanzialmente, stiamo passando da una battaglia campale ed ultimativa nei confronti del virus ad una guerra di trincea e di posizionamento. Tale per cui la contesa tra chi vuol aprire e chi – ma chi poi, ove ve ne siano le condizioni ? – no, non è affatto esaustiva della delicatezza, perdurante, del momento.

Stiamo cercando di imparare a convivere, senza sapere finché dovrà protrarsi questa coabitazione forzata, giocata sul crinale di un reciproco adattamento tra noi ed il virus. Stiamo entrando in una sorta di bilanciata “guerra delle mutazioni”. Il virus cerca disperatamente di difendere la “testa di ponte” che ha stabilito tra gli umani, ampliando a dismisura, ben oltre la “nicchia” animale da cui proviene, il territorio adatto alla sua sopravvivenza. Prima o poi capirà che la strategia che più gli conviene non è quella, tuttora in atto, ispirata ad una crescente aggressività, ma piuttosto una sorta di armistizio che gli permetta quella “colonizzazione” concordata della popolazione umana, che è il suo vero obiettivo. E forse solo a quel punto ne usciremo davvero. In definitiva, gli serviamo più da vivi per poterci “abitare” che non da morti. Senonché l’armistizio è sempre, per definizione, un atto bilaterale , il che vuol dire che anche noi dobbiamo, se così si può dire, venire incontro al virus, cioè adottare, a nostra volta,  determinare “mutazioni” destinate a durare nel tempo, cioè ad entrare stabilmente nel nostro costume di vita.

Aspirazioni e comportamenti spesso fuori misura; una certa concezione compulsiva della vita; una confidenza esagerata nella pacchia dei consumi; un concetto del tempo rattrappito nell’ istantaneità del presente; un qualche smarrimento delle ragioni sostanziali per cui la vita ha senso; l’adattamento ad una concezione ipertrofica e solipsistica dell’ “io” verso cui siamo avviati sulla scorta della coazione individualistica che ci è stata imposta dalla cultura radicaleggiante degli ultimi decenni; un atteggiamento onnivoro e di rapina nei confronti dell’ambiente; l’indifferenza con cui sopportiamo diseguaglianze macroscopiche; una considerazione sbrigativa e banale del ruolo della scienza e del potere delle tecnologie: e si potrebbe continuare, elencando altri versanti su cui si è cristallizzato  il nostro modo di pensare e di vivere, che vanno discussi e riconsiderati. La pandemia, in un certo senso, ci riconsegna a noi stessi, come se uscissimo  da una bolla di illusioni che ci ha fatto perdere il contatto con la realtà.

La politica cosa c’entra?  C’entra, eccome, nella misura in cui consenta che questa evoluzione interiore cui siamo, ciascuno, singolarmente chiamati, possa trasferirsi anche sul piano di una coscienza e di un’ azione collettiva, che, anziché essere compressa in schemi prefabbricati, possa esprimere liberamente il pluralismo che la innerva.

Domenico Galbiati

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