Singolare destino quello dei teorici dell’“Economia Sociale di Mercato”. Tanto decisivi per la rinascita dell’Europa nel secondo dopoguerra, quanto incredibilmente trascurati. Irriducibili anticollettivisti per i comunisti, troppo liberali per i socialisti, troppo interventisti per i liberisti, troppo liberisti per i keynesiani, e anche troppo “filosofi” per la mainstream economics, questi grandi intellettuali e uomini politici hanno avuto la “colpa” di seguire linee di pensiero minoritarie nel secondo dopoguerra. Non deve quindi meravigliare che la loro notorietà è inversamente proporzionale al grande contributo che hanno dato alla ricostruzione, soprattutto della Germania, nel secondo dopoguerra. Finalmente, in questi ultimi anni, il cambiamento del clima culturale e la manifesta inadeguatezza dei vecchi paradigmi rispetto ai nuovi problemi con i quali si sta drammaticamente misurando l’Europa, stanno creando le condizioni per riscoprire questa tradizione e considerarla una preziosa risorsa per far fronte ad alcune sfide decisive dei nostri tempi.

Quello dell’Economia Sociale di Mercato è un filone di pensiero che, a partire dagli anni Trenta con la Scuola di Friburgo del “liberalismo delle regole” (W. Eucken, F. Böhm, H. Grossmann-Dört, C. Dietz, A. Lampe), si è sviluppato fino agli anni Settanta, con pensatori come W. Röpke, A. Rüstow, A. Müller-Armack, L. Erhard, K. Adenauer, a cui hanno fatto riferimento intellettuali come L. Einaudi, L. Sturzo e F. von Hayek. Si tratta di una folta schiera di economisti, giuristi, filosofi, molti dei quali – al pari di Einaudi in Italia – hanno avuto un ruolo politico e tecnico di primo piano in Germania: Adenauer è stato il primo cancelliere della Repubblica Federale Tedesca (1949-63), Erhard è stato prima ministro dell’economia (1949-63), poi cancelliere (1963-66); Müller-Armack è stato Segretario di Stato presso il Ministero dell’economia diretto da Erhard; Röpke è stato un influente consulente del governo tedesco nel dopoguerra.

Il nucleo del “programma di ricerca” su cui hanno lavorato questi intellettuali può essere così sintetizzato in tre punti: a) Il mercato è il più potente dispositivo di problem-solving ( soluzione dei problemi ); b) L’economia di mercato ha bisogno di una cornice giuridica ed etica per non degenerare; c) Garantire una solidarietà liberale attraverso una politica della concorrenza e il reddito minimo garantito. Il presente articolo è il primo di una serie dedicata all’economia sociale di mercato, prendendo spunto dal volume antologico Moneta, sviluppo e democrazia. Saggi su economia sociale di mercato teoria monetaria, a cura di Francesco Forte, Flavio Felice e Enzo Di Nuoscio (Rubbettino, 2020); in questa prima puntata ci limiteremo ad accennare le ragioni che stanno a fondamento del primo punto.

  1. Il mercato è il più potente dispositivo di problem-solving. Partendo dalla constatazione epistemologica che gli individui non solo sono “fallibili”, ma anche “ignoranti”, che cioè ignorano una grande quantità di conoscenze che, essendo legate a “situazioni di tempo e di luogo”, possono essere possedute solo da quegli individui che si trovano in tali circostanze, autori come Hayek e Röpke, hanno visto nel mercato quel potente meccanismo che consente ad ognuno di poter usufruire della più grande quantità possibile di conoscenza altrui per la soluzione dei propri problemi. La ricerca del profitto e del soddisfacimento delle preferenze fa del mercato un “ordine spontaneo” che consente la realizzazione del maggior numero possibile di piani individuali compatibili e non concordati. Soprattutto nelle moderne società altamente artificializzate, nelle quali anche la realizzazione del più banale progetto individuale dipende dalle conoscenze degli altri, è più che mai evidente come solo quell’ordine inintenzionale rappresentato dal mercato può evitare che i singoli siano vittima della propria “ignoranza”. Essendo il più potente dispositivo per l’esplorazione dell’ignoto e per la produzione di innovazioni, il mercato conferisce alle società una superiore capacità di problem solving, conferendo ad esse – come conferma la storia dell’Occidente – un netto “vantaggio evolutivo”.

In un sistema aperto, oltre che complesso, segnato inevitabilmente dall’ignoranza, dalla fallibilità e dal pluralismo delle intenzioni, il processo di mercato, regolato da norme certe che tutelino i diritti di proprietà e la trasparenza dei contratti, è, nello stesso tempo, lo strumento più umile – giacché non contano il censo o la casta – e più efficace – poiché fa leva sul limite umano e, di conseguenza, sul bisogno reciproco – che ci consente di procedere per tentativi ed errori nella direzione di un prudente e realistico processo di sviluppo stabile, diffuso e duraturo. Per di più, il processo di mercato ci mette in guardia contro un’insensata, utopistica ed irresponsabile idea di progresso, incapace di tener conto dell’oggettiva limitatezza della natura umana e, di conseguenza, ci pone al riparo dai rischi derivanti dalla “presunzione fatale” del costruttivismo e dell’ingegneria sociale.

Enzo Di Nuoscio – Flavio Felice

 

Immagine utilizzata: Pixabay

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