Le ragioni di “merito” con le quali Renzi ha motivato l’uscita dalla maggioranza di Governo non sono certo inconsistenti. Il Conte Due non eccelleva per visione, carisma e capacità operativa. Del resto, era nato come “soluzione di necessità”, non come “investimento politico” di prospettiva.
Sarebbe stato più prudente – lo avevamo detto – non caricare la maggioranza che lo ha fatto nascere di una valenza politica a tutto tondo. Questo è stato un errore soprattutto del PD. Ed è stato fatto prima che l’emergenza Covid irrompesse nella vita del Paese.
Nella vita delle Istituzioni (che non sono il meeting di Cernobbio) il “merito” deve anche però comprendere la sostenibilità politica delle posizioni ed incorporare la responsabilità di ciò che accade a seguito delle proprie azioni.
Chi esercita responsabilità politica ed istituzionale non può eludere questa dimensione. Per questo, Renzi ha per metà ragione e per metà torto: date le condizioni generali, la seconda metà rischia di prevalere.
Ora, il Governo Conte ha avuto la soglia minima di fiducia dal Parlamento. Ma tutti sono coscienti che ciò non costituisce una base sufficiente per governare il Paese nel mare tempestoso che già esiste e soprattutto esisterà nei prossimi mesi. Il Presidente Conte ed il PD invocano perciò la nascita in Parlamento di un Gruppo politico (evidentemente più ampio rispetto ai voti raggranellati in questo passaggio da parte di deputati e senatori “responsabili” o “costruttori” che dir si voglia).
Si auspica la nascita di un’area “europeista, popolare, liberale” e Franceschini parla di una gamba “europeista e moderata” a sostegno del Governo, magari previo rimpasto. Non essendo ragionevolmente praticabile un voto anticipato ed avendo escluso, per indisponibilità di quasi tutte le parti, l’unica alternativa possibile (e a mio modo di vedere auspicabile), vale a dire un Governo di larga intesa guidato da una figura autorevole e indipendente, non resta che sperare – da cittadini preoccupati – che il Governo riesca almeno a consolidare la maggioranza ottenuta lunedì e martedì. E che Dio lo (e ci) assista fino alla fine della Legislatura.
La vera domanda politica (anche per noi) è però la seguente: questa operazione parlamentare auspicata può essere la base per la costruzione di quel “partito che non c’è”? In altre parole, può rappresentare l’avvio di una nuova stagione e di un nuovo assetto politico? Personalmente ritengo di no e per almeno tre ragioni di fondo.
La prima. La leadership del Presidente Conte – attorno alla quale tale nuova area si dovrebbe costruire – è strutturalmente legata agli equilibri interni a questo Parlamento ed alle fasi convulse e contraddittorie con le quali si è passati dal Conte 1 al Conte 2, senza una vera discontinuità piena, condivisa con il popolo, sostanziata da un consenso maturo e consapevole. È una leadership ancora tutta dentro la logica di un “populismo” non superato, ma assunto e propugnato a dosi omeopatiche.
La seconda. Un’area politica nuova non nasce “in vitro” e su “progetto esecutivo” dei leader di altri partiti. In questo modo, al massimo, possono nascere “liste satelliti”, che gravitano attorno ad un presunto “fulcro del sistema”, dal quale dipendono in tutto e per tutto: nel nostro caso, attorno all’asse PD-M5S. Personalmente ritengo che un conto siano le alleanze (e ribadisco che per me l’unica alleanza possibile è verso sinistra) mentre un altro conto è la accettazione di un ruolo da “appendice” etero diretta e fin anche “etero costituita”. Oltretutto, l’esperienza dovrebbe insegnare che ciò che si costruisce negli equilibri parlamentari ad opera di singoli eletti non sempre – quasi mai – si dimostra poi capace di interpretare il voto degli elettori dei mondi che si presume (spesso arbitrariamente) di rappresentare.
La terza. Ma veramente qualcuno ancora pensa che il cosiddetto “centro” (per usare un termine peraltro consumato) possa essere immiserito in una funzione di “moderazione” da affiancare ai presunti “progressisti” in modo da presidiarne il “fronte destro”? Mi pare una allegoria priva di senso e di riferimento alla dura realtà di oggi.
Se un contributo può venire dal “partito che non c’è” non è quello del “moderatismo”, ma quello di una spinta radicale al cambiamento vero e alla trasformazione, oltre – come dice bene Stefano Zamagni – un riformismo che ormai gira su se stesso dentro paradigmi sociali ed economici spiazzati dagli eventi (ben prima del Covid).
Per tutte queste ragioni, ritengo che Insieme abbia oggi il dovere di un progetto politico di prospettiva. Per fortuna (paradossalmente) non siamo rappresentati in Parlamento. Lasciamo che questo Parlamento faccia al meglio ciò che può fare – se ci riesce- e pensiamo (operando) al dopo. Guardiamo con atteggiamento solidale, responsabile e critico il lavoro di chi intende garantire continuità al Governo, ma impegniamoci per costruire un futuro politico che non può essere modellato sugli equilibri attuali, né per i contenuti né per le leadership.
Per fare questo, penso che dovremo fare uno sforzo grande di umiltà e di apertura. Umiltà: la nostra identità di “popolari di ispirazione cristiana” postula ambizioni molto più grandi di noi. Ce lo dicono la storia che spesso evochiamo; i personaggi che citiamo a fondamento della nostra cultura; le attese che in larga parte della comunità ancora ci sono rispetto ad un messaggio di liberazione e di futuro che si richiama ai nostri valori.
C’è un enorme lavoro da fare per reinterpretare questa nostra identità di fronte ai segni dei tempi nuovi che viviamo. Ed è un lavoro culturale e sociale – direi comunitario – prima ancora che strettamente politico. Un lavoro che nessuna bandierina issata sull’asta della presunzione può sostituire. Un lavoro che richiede tempi lunghi, investimenti su nuove generazioni, dialogo e approfondimento. Apertura: il “partito che non c’è” non siamo noi da soli. Dobbiamo esserne consapevoli.
Mi viene in mente il sistema cooperativo della mia terra trentina. Tante cooperative di base – ciascuna orgogliosa della sua identità e della sua missione – ma raggruppate necessariamente in “consorzi” di secondo grado.
Ecco, il consorzio di secondo grado che manca al Paese è una area politica che interpreti la necessità di una radicale trasformazione della società, delle Istituzioni e dell’economia, senza abiurare rispetto ai valori della democrazia ed alla sua matrice solidale e comunitaria.
Apriamo noi un Cantiere in questo senso! Penso che troveremo un terreno più che fertile. Apriamo un dialogo vero con “Base Italia” di Marco Bentivogli, con le tante esperienze di vero civismo, con i movimenti territoriali e sociali più innovativi e “resilienti”. Cerchiamo di non avere paura a confrontarci con soggetti politici che si collocano in questo nostro orizzonte pur con percorsi diversi dal nostro, con le sole condizioni di una compatibilità sui contenuti che va ricercata con sincera disponibilità; di un rispetto assoluto verso le concezioni valoriali di ciascuno, anche su temi eticamente sensibili; di un superamento di ogni visione “personalizzata e proprietaria” della leadership. Il resto, sono convinto, può essere nelle cose in divenire, che però vanno accompagnate con coraggio e fiducia.
Lorenzo Dellai

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