Le dimissioni a sorpresa di Zingaretti da segretario del Partito Democratico hanno fatto un po’ di clamore soprattutto per il durissimo giudizio sul partito balcanizzato in correnti che hanno sottoposto il mite Nicola a un continuo “stillicidio”: “Mi vergogno che nel PD da 20 giorni si parli solo di poltrone e primarie quando in Italia sta esplodendo la terza ondata Covid”. Non si ricorda che un leader sia arrivato a vergognarsi del proprio partito, ma al PD nulla è precluso…
Incassate le dimissioni, con un po’ d’imbarazzo (ma neanche troppo) per le esternazioni del segretario uscente, i Dem hanno richiamato Enrico Letta dall’esilio parigino che si era autoimposto per ritrovare un po’ di serenità dopo la defenestrazione subita da Renzi. Lui ha accettato, lusingato dal ruolo di “salvatore della patria”, e il partito ha compiuto l’impresa di eleggerlo praticamente all’unanimità al vertice del Nazareno. Postcomunisti e liberal, giovani turchi ed eterni dorotei, femministe e capicorrente rigorosamente maschi, renziani impenitenti, renziani pentiti e antirenziani: tutti insieme si sono riconosciuti nella candidatura dell’esule ex presidente del Consiglio, accorso al capezzale del partito. Un unanimismo che appare sorprendente, ma che al momento serve a mantenere un’unità di facciata.
Passando alla sostanza politica, sarà interessante vedere quanto la linea di Letta si discosterà da quella del predecessore. Zingaretti, ispirato dal suo Rasputin, il fido Goffredo Bettini, aveva propugnato l’alleanza strategica con il Movimento 5 Stelle, a partire dalla strenua difesa del governo Conte – una linea del Piave nei fatti subito smentita per entrare nel governo Draghi… – e dalla proposta di presentare candidature comuni nelle grandi città.
Dal nostro punto di vista, in questa politica vediamo la solita, inaccettabile, riproposizione del bipolarismo. Il connubio PD-Cinquestelle rappresenterebbe la struttura portante del polo di centrosinistra, contrapposto al centrodestra a trazione sovranista (al netto delle giravolte governiste di Salvini). Forse nella testa dei dirigenti Dem c’è la segreta speranza di riportare al partito gran parte dei voti a suo tempo usciti verso il Movimento, passato in breve tempo dal “vaffa” alla difesa delle poltrone, e quindi entrato in piena sintonia con la classe dirigente Dem. Il rientro di LeU nel PD – “mai avere un concorrente a sinistra”, insegnavano alle Frattocchie – aggiungerebbe poi un semplice corollario al teorema principale.
Contro la strategia Bettini-Zingaretti si è intanto manifestata un’opposizione che per brevità definiremo “centrista”: non solo composta da Renzi e dal più presentabile Calenda, ma anche rappresentata da commentatori di giornali del mainstream italiano – affascinati dalle magnifiche sorti e progressive del governo Draghi – e dal battagliero giornale online “Linkiesta”, promotore di una grande alleanza dei riformisti – per occupare “lo spazio politico tra Enrico Letta e Mara Carfagna”, ha spiegato Marco Bentivogli nella prima grande adunata via web del rassemblement – che dovrebbe permettere al PD di affrancarsi dall’accordo con i populisti grillini. Coloro che lavorano alla creazione di questa sedicente “area liberaldemocratica” hanno salutato con favore il cambio al vertice del PD, vedendo nelle dimissioni di Zingaretti la sconfitta della linea di coalizione con il M5S, e in Letta un interlocutore più favorevole.
I primi passi del neo segretario hanno però detto altro. Letta ha incontrato Giuseppe Conte, leader in pectore del grillismo di governo, e ha espresso soddisfazione per l’incontro, condito anche da umana simpatia: “Siamo due ex che si sono buttati contemporaneamente in una affascinante nuova avventura”. Potrebbero davvero andare d’accordo i due, accomunati dal fatto di essere diventati “ex” per mano della stessa persona…
Questa prospettiva ha creato un po’ di sconcerto – Letta rianima il partito di Conte, ha titolato “Linkiesta” un editoriale di Francesco Cundari – tra chi spera che il principe PD abbandoni la pretendente Cinquestelle per un nuovo rapporto con la galassia riformista e liberal. Sugli sviluppi di questa nuova telenovela molto ci diranno le scelte per i candidati sindaco del PD nelle grandi città, in particolare Roma. Che PD e Cinquestelle vadano ognuno per proprio conto al primo turno è quasi certo, vista la ricandidatura di Virginia Raggi. Se però il PD convergesse da subito su Calenda sarebbe impossibile un recupero di voti grillini al ballottaggio. Se invece il candidato Dem fosse Gualtieri (ministro con Conte) un travaso di voti al secondo turno sarebbe in gran parte possibile. Sempre ammesso, ma non concesso, che sia la Raggi a finire dietro il candidato del PD…
Insomma, al momento la linea politica del segretario entrante pare in assoluta continuità con quella del predecessore. Potremmo dire che esiste un’unica strategia, quella di ZingaLetta.
Volendo vedere le differenze tra i due, Letta – per atavica prudenza democristiana – avrebbe certamente evitato di definire Conte “il punto di sintesi ed equilibrio avanzato” del centrosinistra, come ha fatto Zingaretti. Ma questi avrebbe evitato di chiedere a Salvini di entrare nel PPE, uscita non meno infelice fatta da Letta. In positivo Zingaretti aveva almeno ritenuto necessaria (senza battere i pugni sul tavolo…) una nuova legge elettorale decisamente proporzionale per limitare i danni alla rappresentanza dovuti al secco taglio referendario del numero di parlamentari. Il rientrante Enrico si è invece subito premurato di far sapere di essere per il sistema maggioritario. Nessuno ovviamente lo dice, ma dalla Meloni a Bersani, passando per Salvini, Renzi e Letta, tutti intendono mantenere il privilegio di scegliere i “nominati”, uomini o donne che siano.
È ormai evidente che nessuno nel centrosinistra vorrà intestarsi il ritorno a un sistema elettorale proporzionale. Non il PD, centrale in ogni possibile coalizione alternativa al centrodestra. Non il Movimento 5 Stelle, che insediatosi a palazzo ha ben compreso l’importanza di poter nominare i parlamentari fedeli alla linea. Non gli aspiranti alleati dell’area riformista, dove i liberal alla Ceccanti, Morando, Parisi, così come Calenda e Renzi, sono convintamente per il maggioritario.
Il posizionamento sulla legge elettorale è quindi un primo eloquente passo che dimostra come Enrico Letta si stia muovendo su un percorso estraneo alla tradizione del Popolarismo. Eppure alcuni amici si sono un po’ ringalluzziti per il cambio al vertice, con il passaggio da un ex segretario della Federazione giovanile comunista a un ex presidente dei Giovani democristiani europei: sperano che, grazie al nuovo leader, possa riprendere vigore la componente popolare del PD, e poterlo votare senza dover usare la molletta “alla Montanelli”, turandosi il naso.
Sono tuttavia assai scettico in proposito. Vi racconto, in modo asciutto, il perché.
Primavera 2018. Nel Direttivo dell’Associazione Popolari del Piemonte prepariamo il programma di incontri per celebrare il Centenario di fondazione del Partito popolare italiano. Nei giorni della ricorrenza, intorno al 18 gennaio 2019, intendiamo organizzare l’appuntamento clou, quello dai contenuti più politici, sull’attualità del Popolarismo, con due ospiti di rilievo, uno studioso e un politico. Come politologo interpelliamo Massimo Cacciari, che risponde alla mail una settimana dopo declinando l’invito, e nel giro di pochi giorni otteniamo la disponibilità di padre Occhetta. Per la figura politica decidiamo di puntare su Enrico Letta. Viene cercato telefonicamente dall’ultimo segretario regionale della Margherita, che con lui aveva avuto rapporti stretti anche in quanto referente locale della sua corrente, i “lettiani”: tante telefonate dirette senza risposta, e neppure i contatti con la cortese segretaria parigina, che assicura di aver informato il professore della richiesta, permettono allo sconsolato amico di ottenere una risposta. Allora prova a sentirlo l’ex parlamentare e segretario regionale del PD che con Letta aveva intrattenuto intensi e amichevoli rapporti sia alla Camera sia nella successiva attività di partito. Anche qui tutte telefonate andate a vuoto. Passato così un altro mese e arrivati a giugno, decide di tentare il presidente emerito dei Popolari piemontesi – padre nobile del cattolicesimo democratico e universalmente stimato – che aveva ben conosciuto il giovane Enrico sin dai tempi in cui collaborava con Andreatta ed era vicesegreterio del PPI. Nessuna risposta anche da questa serie di telefonate, neppure tramite la segretaria. Abbiamo così invitato Rosy Bindi, che ha subito accettato. Di Letta nessuna notizia fino a quando a inizio dicembre esterna ai media il suo Sì al referendum Renzi-Boschi. Il convegno, con relatori Bindi, Occhetta e Bodrato, si è poi tenuto il 26 gennaio 2019 con 130 presenti.
Non aggiungo nulla a quanto ho esposto, e tengo per me le considerazioni sulla persona, che viene sempre prima del politico. Capirete però perché mi permetto di dubitare del fatto che Enrico Letta possa rappresentare il leader di riferimento per il rilancio della tradizione politica popolare di ispirazione cristiana…
Dopo tutto anche lui è un personaggio del logoro teatrino della politica della Seconda Repubblica – quello ormai rifiutato da un elettore su due –, un protagonista della fallimentare stagione del bipolarismo, del maggioritario, della diaspora e dell’irrilevanza della nostra presenza culturale.
Occorre cambiare, con partiti nuovi e facce nuove. Insieme è un tentativo in questa direzione.
Alessandro Risso
Pubblicato su Rinascita Popolare dell’Associazione i Popolari del Piemonte ( CLICCA QUI )