A Milano, in anni ormai lontani, un amico molto autorevole quando era in vena di battute – ed era uno che avrebbe preferito, si fa per dire, perdere un amico piuttosto che rinunciare ad una battuta – diceva a noi giovani di primo pelo che era “meglio far politica perché a lavorare si fa fatica”.

Se lo poteva permettere perché noi sapevamo bene che aveva sempre lavorato sodo fin da giovanissimo – ed aveva fatto anche di più – per cui il suo messaggio non era affatto diseducativo, ma piuttosto un benevolo ed ironico invito a mettere in conto, nella nostra vita pubblica  incipiente, anche la fatica della politica.

Probabilmente – e questa volta senza nessuna ironia, anzi drammaticamente sul serio – la pensa cosi anche la centuria e piu’ di parlamentari 5Stelle che si sentono franare la terra sotto i piedi di fronte alla ferma e ribadita presa di posizione dell’ Elevato, cui hanno affidato il loro destino ed ora esige – quasi fosse un cruento sacrificio d’obbedienza e di sangue – il rispetto dei patti, in ordine al limite delle due legislature

La stampa dice che siano molto allarmati, soprattutto – si può immaginare – quelli che, prima di approdare in Parlamento, un lavoro lo avevano e, quindi, della fatica che comporta, ne sanno qualcosa.

Così pure quelli – e pare non siano pochi – che un lavoro, un vero lavoro non l’hanno mai fatto e forse sono presi dalla fastidiosa vertigine che accompagna quell’ “horror vacui”, che spesso sperimentiamo di fronte all’ ignoto.

A Grillo va riconosciuta una indubbia coerenza e, se non avesse lasciato il Movimento, Di Battista se la riderebbe sotto i baffi, a fronte dell’altro dioscuro” Di Maio, dato che, in occasione delle ultime elezioni politiche, ha adottato la tattica del “vai avanti tu, che a me scappa da ridere…” ed oggi avrebbe campo libero, avendo accuratamente evitato di sovrapporre alla prima, una seconda legislatura.

Pare che alcuni parlamentari pensino allo sciopero delle  “restituzioni”, pronti a gettare alle ortiche un altro di quegli orpelli identitari che, in effetti, hanno funzionato come specchietti per le allodole e niente più ed oggi si trasformano beffardamente nella tagliola di un “destino cinico e baro”, cui, peraltro, hanno inopinatamente consegnato le loro fortune.

Altri, al contrario, attenderebbero  che l’avvento di Conte sia l’occasione per un cambio di ragione sociale del  movimento o partito che sia, tale per cui, con la vecchia livrea, se ne andrebbero al macero le regole e le parole d’ordine che discendono dal fatidico “vaffa day “.

Certo, è impressionante l’involuzione catastrofica, al di là del drastico calo di consensi che ne è solo un sintomo,  del pentastellati. Verrebbe da dire che “populisti si nasce, non si diventa” e quand’è così, quando la tara è originaria, genetica, non ci si scappa.

Alla ricorrente domanda se siano di destra o di sinistra, loro stessi non sanno rispondere perché, al di là della più o meno vaga propensione personale di ciascuno, non lo sanno neppure loro, dato che il quesito è talmente sovrastato  dalla loro intrinseca indole populista da non poter  nemmeno essere seriamente affrontato. Ad ogni modo, è bene non dimenticare che il “populismo” anche quando fosse accompagnato dalle più alte, nobili e soggettivamente sincere aspirazioni sociali, è in sé strutturalmente di destra. Non a caso i 5Stelle sono fungibili per ogni alleanza ed ogni rovesciamento di fronte, ma non affidabili davvero per nessuna. Se ne facciano una ragione coloro che immaginano di  “buscar el levante por el ponente”.

La politica è geometrica. Ribolle, eppure non può fare a meno di rispondere ad un ordine intrinseco agli eventi abbastanza profondo da non apparire a prima vista, ma non ricusabile. Sono “incolti” nel senso buono e radicale del termine, cioè privi delle categorie interpretative necessarie, qualunque sia la cultura politica di riferimento, ad orientarsi nella lettura e nella comprensione dei fatti che via via evolvono. Sono un impasto di buona volontà – e, questo va riconosciuto, anche di generosità sincera, almeno in molti – ma appiccicato ad una  iperbolica sottocultura della tecnica, che, non a caso, derubrica le persone a “portavoce”.

Per questo, dopo due legislature i parlamentari possono, anzi debbono essere sostituiti ad insindacabile giudizio di chi ne dispone… non sia mai che imparino il mestiere e qualcuno abbia la pretesa di riscoprire la propria capacità critica personale, al punto di non accettare più la postura genuflessa ed obbligata del ”portavoce”.

Il populismo, poi, tra gli altri poco commendevoli caratteri, implica sempre, di per sé, una abbondante dose di moralismo e, dunque, di farisaica ipocrisia. La “questione morale” sarebbe la cosa più semplice del mondo, se ciascuno si facesse carico  della propria ed al resto, là dove  necessario, provvedesse autorevolmente la magistratura.

Al contrario, il “moralista”, anziché della propria, si impiccia della questione  altrui e così spariglia il gioco, cercando di mostrare come  la propria adamantina virtù campeggi sulle rovine del vero o  presunto malaffare altrui. Senonché, qui spesso entra in gioco un processo – molte volte perfino inconscio, il che, se non altro, salvaguarda la buona fede, ma non i danni che ne derivano – di proiezione, tale per cui la ricerca puntigliosa della pagliuzza nell’occhio altrui è funzionale ad occultare la trave nel proprio.

Il mio vecchio professore di storia e filosofia, in modo forse eccessivo da quell’uomo appassionato che era, concludeva questa riflessione, affermando che non tutti i farabutti sono moralisti, ma tutti i moralisti sono farabutti. Se poi il moralismo viene assunto come facile surrogato di un giudizio politico carente, il gioco è fatto. 

Resterebbe da chiedersi cosa pensi davvero, in cuor suo, Grillo della classe dirigente cresciuta nel suo cono d’ombra. E come se la passi Conte, correndo su e giù a bordo campo, per scaldare i muscoli prima di entrare in partita, sia pure con la fascia di capitano, ma sotto l’occhio vigile ed i modi  spicci del “mister” che dalla panchina governa la squadra.

Domenico Galbiati

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