Il partito: “voce di chi non ha voce”.

Secondo la bella e suggestiva definizione che ne diede Carlo Donat Cattin.
Identificandolo, dunque, con una forza organizzata al fine di difendere e promuovere le istanze ed il ruolo dei ceti popolari. Fino a quegli ultimi cui mancano perfino gli strumenti per tradurre il loro bisogno nei termini di una chiara, esplicita, consapevole domanda sociale. Cosicché al partito spetti perfino un compito non solo di rappresentanza, come nel caso del sindacato, ma addirittura di supplenza.

Quindi, partito inteso come “prendere parte”, con la necessaria franchezza, per quei valori di libertà e democrazia, giustizia sociale e solidarietà, uguaglianza, o meglio equità – secondo l’assunto di Don Milani per il quale è somma ingiuria ripartire parti uguali tra chi muove da posizioni socialmente e culturalmente assai differenziate – che disegnano la “dimensione popolare” della nostra civile convivenza.

I partiti, dunque, ieri ed oggi. Servono ancora nell’era digitale e dell’esplosione esponenziale di una comunicazione che, d’un sol tratto, può assurgere ad una dimensione globale, del tutto a prescindere da ogni riferimento territoriale? Che senso ha essere cittadini nell’orizzonte ristretto della comunità cui si appartiene, secondo il modesto raggio delle relazioni locali e di gruppo, se appena ci si apparta, passando attraverso lo schermo del proprio computer, si può abitare il mondo?
Qui bisognerebbe fermarsi a riflettere su come noi siamo “incarnazione”, anima e corpo o meglio sintesi di questi due versanti nell’ “unità duale” di cui dice San Tommaso.

Se si può banalmente applicare al nostro campo vuol dire che una forza politica nasce, si afferma e cresce nella fisicità
del proprio radicamento territoriale, nell’intensità relazionale del “vis a vis”.
Tutto il resto, i social ed ogni strumento di telecomunicazione viene dopo ed è un di più di fondamentale rilievo, un fattore di facilitazione e di arricchimento indispensabile, purché non si pretenda di sostituire alle persone i loro rispettivi “avatar”, ospiti virtuali di un mondo spettrale.

Tuttora i partiti soffrono – semplicemente in quanto tali, cioè a prescindere da un esame più ravvicinato della loro funzione e delle loro responsabilità – di grande diffidenza, anzi, spesso, di rifiuto e di palese ostilità. Vengono considerati strutture chiuse ed impenetrabili, dedite al potere, luogo di trame, complotti ed indecifrabili lotte intestine.

Si tratta, in gran parte, di giudizi fuori luogo, per lo meno enfatizzati, eppure dotati di una verosimiglianza che nuoce ad uno sviluppo corretto del discorso pubblico e della democrazia. A maggior ragione, dunque, è necessario pensare ad una seria applicazione dell’ art. 49 della Costituzione.

Le forze politiche sono chiamate, nel nostro immediato futuro, a difendere e promuovere la democrazia che non è più necessariamente, come l’abbiamo conosciuta fin qui, la cifra ineludibile del nostro ordinamento istituzionale. Come dimostra, per restare al nostro Paese, la riforma costituzionale avanzata dal governo in carica. Ed in tante parti del mondo, l’involuzione autocratica di antichi e consolidati sistemi Democratici. E poiché ognuno può vendere solo la farina del suo sacco, abbiamo bisogno di partiti che facciano quotidiana esperienza di chiara democrazia interna, se di quest’ultima devono testimoniare e riguadagnare il valore nella controversia del discorso pubblico.

Ad ogni modo – piacciano o meno – i partiti sono indispensabili e se non ci fossero cadremmo dalla padella nella brace di lobby, aggregazioni di particolari interessi di ogni genere, movimenti privi di consolidate categorie di giudizio, disordinate rivendicazioni territoriali, sommovimenti ed onde emozionali facilmente strumentalizzabili dal “capo carismatico” di giornata.

Senza una mediazione che sia capace di discernimento critico e di autonomia di giudizio da parte di ognuno, nella rete delle proprie appartenenze sociali, cadremmo nelle spire del falso idolo della democrazia diretta.

Quanto più si fa stretto il sentiero che si inoltra nel ginepraio delle trasformazioni che ci assediano, tanto più il pieno esercizio del proprio dovere di
cittadinanza, esige che si “prenda parte”. Lo si può fare in molti modi, che vanno
dalla cultura, all’impegno sociale, alle tante forme di volontariato, ma è pur sempre vero che quella che una volta si chiamava “militanza”, cioe assunzione di un compito politico o istituzionale resta, pur sempre, la via privilegiata per una responsabilità diretta e personale.

Domenico Galbiati 

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