In un tempo di crisi politica come quello che il nostro Paese attraversa, rileggere – a cent’anni dalla fondazione del Partito Popolare e a sessant’anni dalla morte di don Luigi Sturzo – la proposta municipalista del prete di Caltagirone è opera oltre che saggia assai utile.
È questo l’intento di Nicola Antonetti e di Massimo Naro curatori del volume da poco edito per i tipi de “Il Mulino” e intitolato Il municipalismo di Luigi Sturzo. Alle origini delle autonomie. L’opera raccoglie diversi saggi scaturiti dalle relazioni pronunciate da vari studiosi il 16 novembre del 2018 a Caltanissetta in un convegno – sulla concezione sturziana delle autonomie locali – organizzato dall’Istituto “Luigi Sturzo” e dal Centro Studi sulla Cooperazione “Arcangelo Cammarata”. Proprio a Caltanissetta nel novembre del 1902, Luigi Sturzo chiamò a raccolta i consiglieri provinciali e comunali cattolici siciliani per intraprendere un percorso che a partire dall’attenzione verso le autonomie locali riuscì, nel giro di qualche anno, a divenire progetto politico nazionale tramite il Partito Popolare.
Nel volume, Agostino Giovagnoli delinea il contesto storico nel quale si situa l’idea di Sturzo sulle autonomie locali. Periodo caratterizzato da una fase nella quale sia da un punto di vista teologico sia da una prospettiva culturale, la comunità ecclesiale cominciava a muovere i primi passi per l’accettazione definitiva dello Stato unitario e verso un ripensamento della Chiesa nel seno del nuovo paradigma storico. In tale scenario, come afferma nell’introduzione lo storico Francesco Malgeri, fiorisce il pensiero sturziano orientato alla: «valorizzazione delle migliori energie locali e una più cosciente partecipazione dei cittadini alla vita pubblica» (p. 8).
La visione presentata dal sacerdote siciliano al convegno di Caltanissetta si fondava su di una concezione dello Stato che consentisse la libera crescita degli enti, delle associazioni e dei gruppi locali destinati a garantire vitalità tanto alla società quanto alle istituzioni le quali dovevano evitare le derive accentratrici e antisociali. Si trattava, per il prete calatino, di: «risanare l’ambiente amministrativo, migliorare i servizi pubblici, costituire il comune centro della vita sociale democratica della cittadinanza, sollevare le sorti delle classi lavoratrici, operaia e agricola» (p. 58).
Così l’ente comunale, libero dall’ossessivo controllo della macchina burocratica statale, poteva divenire incentivo alla crescita di una classe dirigente autonoma e impegnata tanto in politica quanto nelle imprese economiche e sociali. Classe dirigente da rinnovare tramite la partecipazione alla vita politica comunale che, specialmente in Sicilia, doveva liberarsi dai partiti personali, dagli affaristi e dalle consorterie varie. Inoltre, come registra l’intervento di Alessandro Pajano, nel discorso che il prete calatino pronunciò al convegno nisseno, emerge l’idea di municipio considerato come un ente concreto che assicura ai cittadini l’iniziale e tangibile presenza dello Stato: «L’autonomia è un carattere originario dell’ente locale, ed è quindi un valore in sé; essa è, tuttavia, un potente strumento per dare ingresso al protagonismo delle classi escluse […]
Il comune si presenta così, ad un tempo, come limite all’azione statale e come il migliore distributore delle energie dello Stato» (p. 29 e p. 31). Quindi, il pensiero di Sturzo non si poggiava su di un assoluto antistatalismo, bensì suggeriva una battaglia contro lo smisurato controllo dello Stato sugli enti locali, sui singoli e sulle comunità al fine di generare dal basso un processo di cambiamento, di liberazione e di riscatto in particolar modo nel Mezzogiorno. In altri termini, per Nicola Antonetti, Sturzo contestava l’idea di uno Stato che: «per la sola esistenza, si definiva autosufficiente e legittimato ad agire senza la necessità di riferirsi alla sovranità del popolo e alle espressioni politiche di quest’ultima» (p. 46).
Oltre a fronteggiare le problematiche amministrative e politiche, l’opera di Sturzo era chiamata a considerare l’approccio del cattolicesimo italiano dell’epoca alle questioni sociali e politiche. Va precisato che con la Rerum novarum di Leone XIII del 1891 si era aperta una stagione di riflessione e di impegno nei territori che condusse la Chiesa ad un’apertura verso le questioni moderne legate al mondo dei lavoratori, del credito, delle imprese. In una situazione nella quale, per via del non expedit, i cattolici non potevano direttamente intervenire alle vicende politiche dello Stato unitario, don Sturzo – insieme a personaggi come Giuseppe Toniolo e Romolo Murri – preparò il terreno per la nascita di un soggetto politico cristianamente ispirato che prese il nome di Partito Popolare.
Quest’ultimo non fu fondato per rappresentare politicamente le istanze della Chiesa istituzionale, bensì per avanzare un programma basato su valori sinceramente democratici in grado di tradurre nella società, ormai plurale, le peculiarità sociali scaturite dal messaggio cristiano.
Nello studio, la fondamentale relazione tra fede e agire politico è presentata da Massimo Naro secondo il quale l’agire sturziano – tanto nella politica quanto nella Chiesa – prende le mosse da una sorta di “spiritualità integrale”. Questa, per Sturzo, contraddistingue il cristiano – non soltanto quello impegnato in politica e nel sociale – il quale non può separare l’azione dalla contemplazione. Così, nel credente, la spiritualità accresce una sensibilità in grado di includere l’essere più intimo e l’agire pubblico. La spiritualità integrale lungi dall’utilizzare la religione per la riconquista della società, fu fermento vivo su cui si sviluppò il piano politico aconfessionale del Partito Popolare. Diversi sono i pregi del volume sul municipalismo sturziano che presentiamo.
Anzitutto, lo studio ha la capacità di rileggere – e dunque di presentare ad un vasto pubblico – una delle pagine fondamentali della storia politica italiana attenta alle autonomie locali. Proprio dal discorso di Luigi Sturzo pronunciato a Caltanissetta nel 1902, sono state concepite le fondamenta di un’istituzione statale vicina alle identità specifiche delle amministrazioni comunali. Il progetto sturziano, fu un punto di riferimento per i costituenti chiamati a ridisegnare le strutture dello Stato all’indomani della dittatura fascista.
Se molto è stato recepito da questa lezione sulle autonomie locali, ancora tanto bisogna fare per tradurre concretamente l’attenzione dell’istituzione statale verso gli enti territoriali. Ciò è particolarmente urgente in un’epoca, come la nostra, nella quale occorrono politiche capaci di valorizzare le peculiarità locali nello scenario globale.
Ma la lezione sturziana va oltre, poiché per il presbitero calatino ogni progetto di riforma delle istituzioni – e della stessa politica – abbisogna di uomini formati e orientati ad un senso di etica pubblica contraddistinto dalla ricerca della giustizia e della sana amministrazione.
Uomini nuovi, dunque, che – a partire dalla comprensione della politica come atto di amore verso la propria comunità – sappiano aprire orizzonti per uscire dalle secche culturali, sociali ed economiche che ogni periodo storico attraversa e nelle quali, in questi ultimi anni, è piombato il nostro Paese. La crisi del nostro sistema politico ci dice che oltre sul municipalismo, Sturzo avesse ragione anche sull’impellente bisogno di rinnovare la nostra classe politica.
Rocco Gumina
Pubblicato da Servire l’Italia