Un cortocircuito nella narrazione economica europea
Da Rimini, nel pieno dell’estate, un pubblico segno di interesse per la situazione economica dell’Italia, del nostro e del suo paese, è venuto per la terza volta in pochi mesi, dall’ex Presidente della Banca centrale europea Mario Draghi. Si tratta di un fatto non banale e, in un certo senso, di una novità.
Al disopra delle Patrie
Perché, è bene precisarlo immediatamente, da Presidente della BCE egli si è sempre correttamente comportato come deve, o dovrebbe, fare ogni alto funzionario internazionale: imparziale nel suo rapporto nei confronti di tutti e di ciascuno dei paesi membri. E non mostrare nessun particolare per il paese di cui è cittadino. E solo la pochezza dei politici e della stampa italiana può spiegare che egli sia stato spesso presentato come una sorta di “santo in Paradiso” di cui disponeva il nostro paese, di una specie di “compare” del suo paese d’origine; come quello tra i potenti della terra che ci ha aiutato più e più volentieri di quanto non abbia aiutato e sostenuto qualsiasi altro paese. E, a ben guardare, non risulta che lo abbia fatto, che egli si sia comportato nei nostri confronti con benevola parzialità, cioè in maniera non consona al ruolo che egli ha fino a ieri ricoperto.
Da ciò, nonché dalla competenza tecnica da sempre dimostrata sul difficile terreno economico-diplomatico europeo ed internazionale, gli deriva un prestigio che – questo sì – potrebbe oggi essere molto utile all’Italia, qualora egli, avendo ormai dismesso il ruolo “al di sopra delle patrie”, assumesse nella propria, di patria, importanti funzioni pubbliche. Ed è questa la prima delle ragioni per cui una sua discesa in campo andrebbe comunque considerata un evento positivo, indipendentemente dal fatto che si possa più o meno concordare con la linea politica che egli sceglierà e cercherà di perseguire. La seconda di queste ragioni essendo poi ovviamente il fatto che – in un paese che oggi si trova nelle mani di gruppi di potere formati da persone in stragrande maggioranza ignoranti ed inesperte – si tratta una persona che conosce il suo mestiere, l’economia; che non è tutto quel che serve per fare politica, ma che ne è una componente non trascurabile.
Tre mosse
Non sappiamo ancora molto di ciò che Mario Draghi si propone di fare, anche se il particolare che la sua prima mossa, un’analisi delle misure da prendere immediatamente per contrastare il distruttivo impatto economico della pandemia, sia stata resa pubblica in Inglese, e attraverso il Financial Times, (ed alla quale in quotidiano britannico ha dedicato mezza pagina) ci fa capire che egli intende rivolgersi tanto all’opinione internazionale che a quella interna.
Anch’esso di respiro più ampio rispetto al mediocre quadro politico italiano è stato poi l’incontro con Papa Francesco, che lo ha chiamato a far parte della Pontificia Accademia delle Scienze; un incontro che nella Penisola è stato visto come la seconda mossa di una partita che si svolgerebbe però su una scacchiera specificamente italiana. Visione rafforzata nella sua credibilità dall’accettazione da parte di Draghi ad aprire con un suo discorso il meeting, a Rimini, di “Comunione e liberazione”.
Anche in quest’occasione, Draghi – nel suo discorso – ha preso le mosse dalla drammatica crisi in cui l’epidemia di Covid-19 ha gettato il suo paese. Ma ha colto l’occasione per andare oltre la semplice indicazione delle misure il tipo congiunturale da lui ritenute sin dall’inizio necessarie ed inevitabili, anche se esse portavano a mettere almeno provvisoriamente in soffitta alcuni dei precetti fino a ieri considerati inviolabili dalla Germania, dai suoi satelliti e dai funzionari di Bruxelles. Nonché l’occasione per cominciare a lanciare uno sguardo alla fase successiva della pandemia, e principalmente all’uso che in tale fase si potrà fare delle risorse che l’Italia avrà a disposizione nei prossimi anni.
Questa differenza di approccio si spiega almeno in parte co il tempo trascorso dal 25 marzo 2020 – quando il testo di Draghi apparve sul Financial Times – sino alla metà di Agosto, quando si è tenuto il meeting; arco di tempo durante il quale l’effetto della pandemia si era rivelato di una gravità che a fine marzo solo i più pessimisti ipotizzavano, e quando molti dei danni arrecati alla società italiana (e alle società occidentali in generale) apparivano ormai molto difficilmente reversibili. Ma non si può escludere che, osservando l’evolversi della situazione l’ex presidente della BCE si sia anche convinto della necessità di un diverso approccio alla questione, o forse semplicemente di quanto fosse opportuno meglio precisare quello che, a questo proposito. egli aveva allora preferito lasciar semplicemente intuire ai lettori del Financial Times. Non senza tuttavia fare un accenno indiretto ai temi affrontati sul quotidiano finanziario britannico, ed in particolare alle reazioni e alle interpretazioni che quella lettera aveva suscitato.
When facts change
Facendo abilmente riferimento al fatto che “I governi sono intervenuti con misure straordinarie a sostegno dell’occupazione del reddito”, talora anche uscendo dalle “regole che avevano disciplinato le nostre economie fino all’inizio della pandemia” e che “sono state sospese per far spazio a un pragmatismo che meglio rispondesse alle mutate condizioni”, egli ha lasciato cadere quasi con nonchalance, “una citazione attribuita a John Maynard Keynes, l’economista più influente del ventesimo secolo….” When facts change, I change my mind. What do you do, Sir?” ( Quando le cose cambiano, cambia la mia mente. Nb: traduzione dell’editore ).
Non era certo difficile riconoscere in questa citazione una conferma a quel che gran parte, chiaramente la maggioranza, della professione economica italiana si era detta dopo aver letto il Financial Times; e lo aveva detto sovente, con entusiasmo, altre volte con ironia, spesso con una punta d’invidia: Mario ha abbandonato, o potrebbe abbandonare, l’approccio che lo ha guidato negli anni da BCE; Mario potrebbe essere tornato l’allievo di Federico Caffè; Mario potrebbe smettere l’eterna faccia da funerale e tornare il ragazzo sorridente che a Roma e a Firenze avevamo conosciuto prima della sua partenza per la Banca mondiale; Mario potrebbe non sentirsi più costretto a volare “al di sopra delle patrie”. E libero di tornare uno dei nostri, tornare ad essere italiano.
Questo è stato il quadro delle reazioni in Italia; se si trascurano, ovviamente, quelle dei “politici”, anch’esse tutte o quasi positive, ma tutte o quasi rivolte a fini strumentali. Pochi, nella professione economica avevano dissentito, ma anche questi chiaramente ammettevano che con la sua lettera Draghi aveva “provocato un cortocircuito nella narrazione economica europea”. Una lettera “che pertanto deve farci riflettere sulle sue conseguenze.” Come avevano fatto, appena due giorni dopo aver letto il Financial Times, due giovani ma già ascoltati economisti; uno, Emiliano Brancaccio, che si era chiesto se Draghi non fosse diventato, o ritornato, ad esser lievemente euroscettico, come era stato il suo compianto maestro Federico Caffè; l’altro, il vulcanico Thomas Fazi, ponendo un interrogativo che – era evidente – lo toccava anche sul piano emotivo: “quanto Federico Caffè è rimasto in Mario Draghi?”.
“Non molto”, aveva egli stesso risposto, ponendo “Draghi conto Draghi”. E dopo una lunga e implacabile disamina di tutte le “colpe” che questi avrebbe accumulato sin dai primi del secolo, aveva concluso: “Draghi non è improvvisamente diventato un novello Keynes da un giorno all’altro. Più banalmente, Draghi sta invocando quella che è la strategia da manuale del buon liberista: privatizzare i profitti in tempo di ‘pace’ (attraverso politiche di austerità a vantaggio del grande capitale ecc.) e socializzare le perdite in tempo di ‘guerra’.”
Questo, nella sua varietà e contraddittorietà, il quadro delle reazioni italiane. Mentre da James K. Galbraith, che fu molto vicino al Governo Tsipras durante la crisi greca, è invece venuta, a commento del discorso di Rimini, una sarcastica battuta: “Muttering about uncertainty does not turn you into Keynes!” ( Borbottare sull’incertezza non ti trasforma in Keynes. Nb: traduzione dell’editore)
Impegno etico e partecipazione
Nel quadro politico italiano, tuttavia, proprio con le parole iniziali del suo discorso ai giovani cattolici, riuniti a Rimini, Draghi ha dato l’impressione di voler meglio precisare anche una propria collocazione ideologica. La pandemia, egli ha infatti detto, “tra le tante conseguenze genera incertezza…… una incertezza che è paralizzante nelle nostre attività, nelle nostre decisioni. C’è però un aspetto della nostra personalità dove questa incertezza non ha effetto: ed è il nostro impegno etico. Ed è proprio per questo che voglio ringraziare di aver ricevuto questo invito, perché mi rende in un certo senso partecipe della vostra testimonianza di impegno etico.”
Nettamente più “impegnato” rispetto alla lettera al Financial Times, appare dunque il discorso di Rimini, in cui Draghi aggiunge: “alcuni ritengono che tutto tornerà come prima, altri vedono l’inizio di un profondo cambiamento. Probabilmente la realtà starà nel mezzo: in alcuni settori i cambiamenti non saranno sostanziali; in altri le tecnologie esistenti potranno essere rapidamente adattate. Altri ancora si espanderanno e cresceranno adattandosi alla nuova domanda e ai nuovi comportamenti imposti dalla pandemia. Ma per altri, un ritorno agli stessi livelli operativi che avevano nel periodo prima della pandemia, è improbabile.” L’intervento dello Stato dovrà, in altre e più semplici parole, avere anche natura strutturale.
Draghi indica come preferibile uso prioritario dei fondi disponibile, gli investimenti nel capitale umano, nella ricerca e nelle “infrastrutture cruciali per la produzione”. Ma non indica ancora una politica di scelta per settori, quella che in genere viene detta “politica industriale”, su cui potrebbe puntare l’Italia per recuperare almeno in parte il terreno perduto dalla fine del secolo scorso nella collocazione nel quadro mondiale della divisione del lavoro e delle specializzazioni produttive.
La ricerca, settore cruciale
Presumibilmente, questo silenzio si spiega con il fatto che il meeting non era la sede più adatta a sviluppare questi punti. E infatti Draghi si è concentrato su temi diversi, anche se non di minore importanza, in particolare quello di una politica della formazione e della ricerca, cui presumibilmente il pubblico giovanile sarebbe stato più interessato. Ma la sua scelta potrebbe anche dipendere dalla consapevolezza di quanto l’Italia abbia perso terreno negli ultimi cinquant’anni, proprio in questo cruciale campo.
L’allarme fu già lanciato all’inizio degli anni 60, quando risultò più o meno superata l’arretratezza accumulata in campo tecnologico e scientifico dell’Italia a causa all’isolamento degli anni di guerra e di autarchia, e si esaurì quindi la possibilità dell’industria italiana di progredire attraverso innovazioni ottenute tramite l’acquisto di brevetti oppure tramite l’imitazione di prodotti stranieri. Si diffuse a quel punto una certa consapevolezza che – per stare nella concorrenza internazionale – era necessaria una maggior spesa pubblica per la ricerca ed un maggiore impegno nella ricerca dei talenti scientifici e dalla loro promozione. Capitale di consapevolezza però che, a parte alcune iniziative rivelatesi in seguito fruttifere quanto geniali, venne in parte dilapidato durane il successivo decennio di demagogia pseudo rivoluzionaria, ed in parte dirottato verso riforme nel numero e nel reclutamento dei docenti, che portarono ad una oggi evidentissima degradazione del mondo accademico.
Eppure, oggi, come ha detto Draghi, è proprio questo settore, il settore della ricerca scientifica, quello in cui l’Italia dispone – specie al Sud, aggiungiamo noi – delle risorse naturali necessarie alle “infrastrutture cruciali per la produzione”, che sono nella maggior parte dei casi risorse umane ed intellettuali. E siccome – come è stato detto – ogni politica della ricerca inizia dalla ricerca e dalla promozione dei talenti scientifici, si tratta di risorse che il nostro sistema educativo, con tutte le sue imperfezioni – anzi, certe purtroppo rarissime volte, paradossalmente, grazie alle sue imperfezioni – tende a mettere in valore; mentre il nostro principale concorrente in campo industriale, la Germania risulta fortemente handicappato dal tradizionale sistema tedesco dell’apprendistato. Di cui, ovviamente l’attuale ministra del Lavoro, Nunzia Catalfo, vorrebbe introdurre in Italia una imitazione.
Resta il fatto che, a Rimini, Draghi si è espresso in termini di moderato ottimismo. Forse anche con un po’ troppa modestia sulle politiche di medio termine, cioè quelle che verosimilmente saranno all’ordine del giorno il giorno in cui la pandemia fosse considerata terminata, o almeno in declino. Ma su cui si si può aspettare che egli voglia tornare anche prima di allora, anche se con gradualità, con prudenza e senza avanzare troppe previsioni che, nella situazione di globale ed ogni giorno crescente devastazione e di incertezza sull’evoluzione futura della stessa pandemia, a Rimini risultano particolarmente difficili e rischiose.
I duri scenari del Medio Termine
Nel momento in cui Draghi sembra voler scendere in campo, il morbo appare infatti a livello mondiale – con la sola eccezione della Cina – ancora in una fase di piena ascesa, mentre in Europa si sta aprendo la seconda ondata.
E’ dunque possibile che Draghi, man mano che si chiariranno i danni provocate dalla crisi sanitaria, sociale ed economica attualmente in pieno svolgimento, presenti orientamenti più precisi di politica industriale, relativamente alla collocazione dell’Italia nel quadro della divisione internazionale delle specializzazioni produttive, sapendone anche mutuare dai suggerimenti che potrebbero venire da un auspicabile dibattito tra persone qualificate su questi argomenti; dibattito tanto più necessario in quanto, oggi come oggi nessuna indicazione – o indicazioni talora che appaiono piuttosto nell’interesse della concorrenza – viene dal governo, cioé proprio dalla fonte da cui sarebbe più logico aspettarsi degli orientamenti.
In un momento in cui, anzi, quel tipico esponente dell’opinione pubblica italiana che è il lettore del Corriere della Sera potrebbe essere indotto a pensare che non sia stato per caso che, lo stesso giorno in cui il quotidiano milanese descriveva ampiamente e positivamente commentava i suggerimenti di Mario Draghi, un duro articolo di fondo tracciasse un quadro desolante della evidente incapacità di Conte e dei suoi ministri – dopo la fase relativamente semplice della chiusure di tutta le attività, e che aveva visto solo due o tre errori veramente gravi – a gestire la fase della riapertura; fase che implicava ed implica non solo una forte capacità di fare scelte resistendo alle pressioni particolari, ma anche una visione lucida del post-pandemia, e dei diversi scenari – alcuni dei quali di non poca durezza – di fronte ai quali potremmo venire a trovarci.
Giuseppe Sacco
Pubblicato sull’Occidentale