Le dimissioni del segretario del PD Nicola Zingaretti non sono certo un fulmine a ciel sereno. Sembrano piuttosto la conseguenza di una strategia politica che non ha avuto buon esito, come avveniva al tempo del vecchio PCI quando il ben noto comitato centrale chiedeva le dimissioni di un protagonista importante “per gravi errori di direzione politica”. Bettini potrebbe avergli suggerito anche questo.

Tutte le altre spiegazioni avranno certo diritto di cittadinanza, ma alla lunga rischiano di rivelarsi di comodo. C’è infatti una evidente rigidità nella linea politica del PD più recentemente perseguita, come l’insistenza nel ritenere strategica l’alleanza con il Movimento Cinque Stelle mentre questo è scosso da gravi problemi interni e mette in discussione addirittura i suoi rapporti originari (Rousseu).

Quello che si legge in questa rigidità è la inspiegabile assenza di attenzione nei confronti di ciò che faticosamente sta emergendo al centro del quadro politico, ovvero un dialogo aperto tra due culture: quella liberale rappresentata anche fuori dai partiti e quella riformista da parte di coloro che provengono dal centro sinistra e non solo.

Possiamo definire sommariamente questo dialogo come “la terza via” tanto per citare una splendida riflessione proposta la scorsa settimana su “Il Sole 24 Ore” da uno dei grandi vecchi della repubblica, tra socialismo e liberalismo, il professor Natalino Irti, rievocando il famoso saggio di Wilhelm Ropke e gli interventi di Luigi Einaudi sull’economia di mercato.  Dialogo che ha trovato estranei anche gli stessi popolari dentro il PD nonostante i ricchissimi contributi delle recenti encicliche di Francesco  da “Laudato si’” a “Fratelli tutti” non certo estranee a questi segni dei tempi e che pure sollecitano riflessioni.

Le attenzioni a questo dialogo aperto non sono manifestazioni culturali che notoriamente trovano oggi scarsa attenzione dentro i partiti, ma possono rappresentare occasioni di  risposte alle conseguenze vive che la globalizzazione provoca sul modo di produrre, di lavorare, di assumere i fattori dello sviluppo.

Invece della attenzione alla dialettica in corso, le cronache più recenti ci dicono altro del PD: l’alleanza a priori con M5S, il problema dei vicesegretari, quello della presenza di genere negli organi direttivi del partito, i rapporti con i presidenti delle regioni. Troppo poco.

Può darsi che alla fine le dimissioni di Zingaretti si riducano a mossa tattica per misurare una maggioranza interna, avendo scelto lui stesso tempi e modalità. Siamo stati abituati per anni ad assistere a queste tattiche persino nelle assemblee di condominio. Come può invece darsi che i popolari dentro il PD, e i riformisti dentro o fuori, cercheranno di affermare una nuova identità al partito, approfittando della situazione del governo di quasi unità nazionale che procede spedito ad affrontare le emergenze economiche e sociali imposte dalla crisi sanitaria.

In ogni caso l’esito di un confronto, se ci sarà, non andrà oltre le modifiche agli assetti interni. Questo nonostante sembrano affollarsi veri o presunti cambiamenti anche in altri schieramenti politici fino a ieri impensati, quasi si siano incrinate le fessure nel vaso di Pandora dopo l’eclissi (speriamo il tramonto)  dei partiti intesi solo come cercatori di consensi.

Guido Puccio

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