Alla fine di questo mese, con la cerimonia ufficiale dell’assunzione della carica, il figlio di Imelda Marcos – figura notissima e universalmente ridicolizzata per il suo sfrenato consumismo (si diceva avesse seimila paia di scarpe) – diventerà Presidente della Repubblica delle Filippine. La stessa poltrona occupata per oltre due decenni da suo padre, Ferdinando Marcos, il defunto dittatore che tra il 1964 e il 1986, ha governato con la violenza e la corruzione le 8.400 isole dell’ arcipelago che chiude a Sud-Est il Mar Cinese Meridionale, e che con i suoi bassi e intricati fondali lo sigilla al transito delle grandi navi.

Un arcipelago che detiene perciò una grande posizione strategica,  confrontabile per fattori geografici a quella detenuta, rispetto alla Russia, dalla zona oggi in violenta contestazione tra Mosca e Kiev. Ma rispetto ad un paese,  la Cina, che ha dieci volte la popolazione della Russia, ed una integrazione commerciale e produttiva incomparabilmente più grande nei mercati mondiali; in tutti i settori, o quasi.

 

A differenza di suo padre, però, Ferdinand “Bongbong” Marcos Jr è oggi arrivato al potere con metodi democratici. Egli ha infatti ottenuto una schiacciante vittoria alle elezioni presidenziali tenutesi il 9 di Maggio;  una vittoria favorita dal clima internazionale di “guerra a pezzi” (già guerreggiata in Europa, Medio Oriente ed Africa, ma da molti temuta come  ormai imminente anche in Asia orientale) e che sembra destinata a portare ad altri nefasti scontri e all’apertura di nuovi fronti militari. E comunque a difficoltà politiche a scapito della Cina ed a favore dei tradizionali legami  tra gli Stati Uniti e il governo di Manila.

Due successi straordinari

Se Marcos ha vinto con il 58 per cento dei voti, con circa 20 punti percentuali di vantaggio sul principale rivale, è stato soprattutto perché ha goduto dell’appoggio da parte del presidente uscente Rodrigo Duterte, cui la Costituzione impediva di portarsi nuovamente candidato. Ma che in questi ultimi anni aveva incarnato le diffuse aspirazioni popolari ad una più forte indipendenza, in politica estera, dall’antica potenza coloniale, gli Stati Uniti. E ad una maggiore vicinanza alla Cina di quanto non sia tradizionalmente gradito ai ceti sociali rappresentati  dalla famiglia Marcos.

Durante la sua presidenza, Duterte, infatti, ha costantemente cercato il riavvicinamento con Pechino. In primo luogo, favorendo una forte cooperazione economica, che ha portato gli investimenti diretti provenienti dalla Cina continentale tra il 2016 e il 2021, consule Duterte, a crescere di ben 12 volte rispetto al totale dei sei anni precedenti. Ma anche con una decisa, e a volte assai brutale, lotta contro la criminalità organizzata e le sue attività, il contrabbando e lo spaccio della droga, e  ancor più il racket del gioco d’azzardo. Due attività, e due centri di potere transfrontiera, contro il quale il governo di Pechino da sempre combatte una guerra senza quartiere; non solo in patria, ma anche – e in un certo senso soprattutto – nei paesi confinanti, dove un enorme flusso di turisti provenienti dalla Cina, sperpera nei casinò vere e proprie fortune.

Lo stesso 9 maggio in cui i Filippini hanno eletto Marcos alla Presidenza, si è  però avuto,  nell’arcipelago, un altro importante fatto politico: il successo di Sara Zimmermann Duterte,  figlia del presidente uscente, che ha conquistato,  in una consultazione elettorale contemporanea ma separata,  la seconda posizione  politica del paese, quella di Vicepresidente. E con una maggioranza ancora più ampia che non quella di Marcos: il 63 contro il 18 percento nel principale rivale.

Uno storico compromesso

Appare insomma evidente che c’è stato, tra le due principali famiglie politiche del paese,  un accordo di compromesso, senza dubbio reso più conveniente e facilitato dal timore nella possibilità che nelle Filippine si potessero riprodurre – con riferimento alla Cina – tragiche divisioni analoghe a quelle esistenti in Ucraina tra forze politiche e sociali favorevoli e/o ostili alla vicina potenza russa.

Negli anni della presidenza Duterte si era, in realtà, spesso pensato che la sua figlia più giovane, Sara appunto, sarebbe stata candidata al posto del padre, al termine del di lui mandato presidenziale. Ma forse più saggiamente – e comunque più astutamente – si è evidentemente optato per la candidatura a Vice-Presidente, e per il contemporaneo sostegno alla candidatura Marcos alla principale carica dello Stato. E ciò probabilmente rende più forti le Filippine in un contesto in cui le tensioni militari tra America e Cina si fanno sempre più evidenti.

I Cinesi d’Oltremare

Non a caso, nella manifestazione a Manila per la conclusione della campagna elettorale, l’appello di Sara Duterte per l’unità tra le due principali forze politiche del paese ha sollevato entusiaste acclamazioni dalla folla. Anche perché, tanto la Cina che gli Stati Uniti hanno profondissimi legami con la società filippina.

Nell’arcipelago vive e prospera infatti una importantissima minoranza cinese. Sulla consistenza della quale il censimento prudentemente non raccoglie dati di natura etnica, ma che consisterebbe – secondo il modo in cui si definisce il loro grado di “cinesità” – in una comunità oscillante tra l’1,5 e il 22 percento della popolazione totale. E non si tratta di una minoranza marginale, tutt’altro. Al punto che il predominio cinese nel mondo degli affari, e negli strati medio alti della società, compresa la gerarchia cattolica – basterà ricordare il celebre Cardinale Sin –,  è frequente causa di scontento popolare.

Ma le Filippine, una ex colonia spagnola in grande maggioranza cattolica e con una non trascurabile minoranza musulmana, ha anche un forte rapporto storico ed economico con gli Stati Uniti d’America. Di cui è stata anche una colonia dopo la Guerra del 1898 ed il Trattato di Parigi, ed il pagamento di ben 20 milioni di dollari da parte degli USA al governo di Madrid.

I Filippini d’America

Da allora è passato molto più di un secolo, eppure l’imprint americano, nell’arcipelago, è ancora molto forte e visibile, anche se è meno profondo di quello spagnolo, che ha carattere soprattutto culturale e religioso. Ma il rapporto con gli Stati Uniti  non appartiene solo passato.  Anzi è qualcosa di vivente a causa del gran numero di filippini emigrati – e che tuttora emigrano, o vanno a compiere i loro studi – negli Stati Uniti d’America.

Si tratta di una comunità molto vasta, valutata a 5 milioni persone. Ed anche abbastanza unita e politicamente attiva, come ben dimostrato dal fondamentale ruolo svolto al momento della caduta di Marcos e della sua criticatissima moglie. Perché di fatto furono i filippini d’America a rendere impossibile un impegno aperto di Washington a favore del dittatore al momento della sua caduta.

Un altro legame di grande importanza, perché gioca un ruolo molto pesante nel condizionare la politica estera di Manila, è quello costituito dal vero e proprio Trattato di alleanza che alla pari con il Giappone e la Corea fa delle Filippine, con le sue 8400 isole, un asset strategico di fondamentale importanza per Washington. Le forze armate americane, pur non disponendo più di basi fisse nel paese, fruiscono infatti di un accordo che le offre grandi possibilità in materia di esercitazioni  militari comuni. Accordo che Duterte aveva per un momento pensato di abrogare, ma al quale è più di recente tornato di essere favorevole.

Ed è stato, questo ripensamento, un altro inequivocabile segno di come la presente congiuntura internazionale, e le prospettive conflittuali che gravano sull’intero scacchiere mondiale – e che erano prevedibili molto prima di quando i governi ed i media occidentali, cominciassero ad ammettere la loro esistenza – stiano giocando un ruolo negli orientamenti politici prevalenti a Manila: un compromesso “centrista”  negli assetti di potere interno, ed un tentativo, nel contesto internazionale, di mantenere buoni rapporti tanto con l’America che con la Cina.  A prezzo, forse – e lo si vedrà in un futuro ormai assai prossimo – di un rallentamento della crescita economica indotta in questi ultimi anni dalla cooperazione con Pechino. Ma con l’indubbio beneficio, per Manila, che pure ha con Pechino un contenzioso territoriale per una zona di mare e di piccole isole, di restare in rapporti non conflittuali con entrambe le superpotenze del ventunesimo secolo.

Giuseppe Sacco

 

 

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