Potremmo trovarci di fronte al paradosso di vedere rovesciate alcune cose date per certe prima di giungere a questa confusa vigilia del voto per il Quirinale. In particolare, quel convincimento che una larga maggioranza, a partire da quella nata attorno all’Esecutivo di Mario Draghi, potesse essere trovata sulla scelta del nuovo Presidente della Repubblica. A lungo è sembrato preminente l’intento di assicurare la prosecuzione della legislatura fino alla sua scadenza naturale del 2023, sulla base del convincimento che se poi fosse Draghi a salire al colle più alto non sarebbero mutate di molto le cose.

La prima ipotesi, coerente con questo modo di ragionale, che anteponeva a tutto la battaglia contro la Covid-19 e l’impegno sul Pnrr, prevedeva addirittura che Sergio Mattarella rimanesse al suo posto al fine di assicurare una continuità di stile e d’indirizzo. Abbiamo visto, poi, come la ferma posizione del Presidente della Repubblica abbia messo in crisi questo schema. Che però qualcuno continua a mantenere vivo sulla base della valutazione di quanto davvero poche altre persone, nelle attuale condizioni, siano in grado di assicurare al Paese quella fermezza costituzionale, accompagnata con una grande capacità di ascolto e di mediazione, universalmente riconosciuta a Sergio Mattarella.

L’altra ipotesi più spendibile è sempre apparsa quella legata al nome di Mario Draghi. Molto agitata dalla stampa, piuttosto che dai capi partiti i quali hanno dato la stura ad una serie di dichiarazioni che, semmai, prevedevano il contrario, giacché sono state tutte sempre dirette a sostenere l’ipotesi della continuità dell’attuale Governo.

In realtà, la convocazione congiunta di Camera e Senato avviene in un clima di grande incertezza che fa ancora di più emergere la constatazione di come si stia arrivando alla fine del sistema fino ad oggi impropriamente chiamato Seconda Repubblica (CLICCA QUI).

I segnali che non sia per niente facile scegliere l’uomo del Colle, e che non sia assolutamente detto che quella scelta non influisca sulle sorti dell’attuale Governo, sono in realtà crescenti. L’ultimo è venuto dal clima in cui, prima, la Cabina di regia, poi, il Consiglio dei Ministri si sono pronunciati sulle ultime disposizioni in materia di vaccinazione. Il ministro Giancarlo Giorgetti non ha partecipato. I giornali hanno parlato di un duro scontro che si sarebbe consumato con Mario Draghi. Inevitabile che poi arrivassero le precisazioni e le smentite.

Inevitabile, però, chiedersi quanto queste smentite siano credibili perché ben sappiamo delle complicate relazioni in atto all’interno della maggioranza di governo. Rese ancora più complesse dal fatto che Forza Italia e Lega, tra di loro comunque non sempre su posizioni coincidenti, continuano a tenere in vita il centrodestra di cui fa parte anche Giorgia Meloni da cui quotidianamente giungono sentite contestazioni di ogni singola decisione presa dal Governo. Anche in materia di pandemia. Lo ha fatto con i due esecutivi a guida Conte e continua con quello Draghi di cui sia Berlusconi, sia Salvini si sbracciano a ricordare di essere gli originali ideatori.

Come del resto a sinistra, vi è un gran gioco delle parti. Però a destra l’equilibrismo è ancora più necessario a seguito dell’emergere della candidatura di Silvio Berlusconi. In effetti, Salvini è costretto a sostenere il capo di Forza Italia, ma al tempo stesso continua ampiamente a dirsi non affatto certo che l’anziano leader degli azzurri sia in grado di raccogliere tutti i voti necessari per essere eletto dopo la quarta votazione con la maggioranza semplice.

Nella storia delle 13 votazione fatte finora per il Quirinale state solo due le volte in cui le cose si sono risolte con una maggioranza risicata. Giovanni Leone nel 1971 ce la fece con soli 13 voti di scarto. Fu il frutto di una vicenda tutta interna alla Dc con la sua vittoriosa contrapposizione ad Amintore Fanfani. Nel 2006, Giorgio Napolitano fu eletto dalla sola maggioranza di centrosinistra.

Salvini ha fatto ampiamente capire di preferire una scelta condivisa. Cosa al momento, però, scartata dal Pd che non intende partecipare ad un tavolo, è stato detto, su cui possa esserci l’ipotesi corrispondente al nome di Berlusconi.

Insomma, l’attuale stallo tra i partiti rischia di prolungarsi ben oltre il 24 gennaio. Ritrovandosi tutti di fronte alla vera loro questione irrisolta: cosa rappresentano se non una congerie d’interessi, troppo spesso in conflitto pure tra di loro, ed incapace, dunque, ad indicare un futuro cui è indispensabile pensare, invece, con ben altra attitudine ed apertura mentale?

 

 

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