Acquisita, mi sembra con unanime condivisione, l’idea distintiva della trasformazione, in luogo di tanti stanchi riformismi, bisogna darne attuazione coerente. Un partito di programma rivolto alla trasformazione, si può dire.
Bisogna allora avere obiettivi, e non di corto respiro, per disegnare i percorsi di trasformazione. Sono obiettivi che vanno discussi con larga partecipazione. Non è un compito facile. Ben più facile, anche se dallo spettacolo degli attori abituali non sembra, allestire riforme che si giocano nella autoreferenzialità degli addetti ai lavori.
Per elaborare un programma politico di trasformazione occorre sostituire dipartimenti tematici con ambiti diversi e meno tradizionali che indichino immediatamente i percorsi di trasformazione in cui ci si impegna? Astrattamente sarebbe meglio, ma potrebbe essere complicato e senza garanzia di successo. È invece decisivo che per ogni dipartimento comunque denominato siano chiari, espliciti e condivisi gli obiettivi di trasformazione da perseguire.
Dai contenitori riformistici tradizionali, che a volte funzionano da paraocchi, occorre uscire anche per scoprire con uno sguardo nuovo mutamenti e fermenti nella società italiana. Parlo qui non della trasformazione politicamente perseguita, ma dei mutamenti spontanei. Ne cito uno, niente affatto ininfluente per il far politica. Non è tra le cose a cui poniamo più attenzione, perché le trasformazioni che usualmente più ci colpiscono riguardano il declino della natalità, la nuova composizione dei lavori, l’invecchiamento demografico, la temuta usurpazione robotica, le questioni di diritti e tolleranze che si affacciano.
Nella prima Repubblica gli iscritti ai partiti erano circa (o forse almeno) 4 milioni. Era dunque questa una grande forma di partecipazione popolare, sebbene con diversi livelli di motivazione e di consapevolezza e fino ad arrivare ai famigerati pacchetti di tessere che pure entravano in quei numeri. Ora gli iscritti ai partiti sono complessivamente circa un milione (ho ricostruito questa stima in un intervento precedente), ma nel frattempo hanno superato i sei milioni le persone che fanno volontariato. Ci sono in questa cifra anche i casi di volontariato individuale, ma quello organizzato è cresciuto in misura rilevante. Un solo esempio. In occasione del Cinquantennale di Caritas abbiamo appreso che in dieci anni i volontari di Caritas sono quasi raddoppiati, passando da 46.000 a 93.000 (si tratta dei soli volontari laici, ai quali vanno aggiunti i volontari religiosi e i giovani del servizio civile).
Il potenziale di partecipazione della società italiana non si è ridotto, ma ha imboccato nuove strade. Meno nella politica e più nel sociale troviamo gratuità di energie e capacità generativa. C’è stato un disinvestimento. C’è stato un reinvestimento. La politica dovrà guardare oltre, non indietro. La crescita culturale e operativa della sussidiarietà fa si che chi opera nel sociale non abbia il complesso del cadetto rispetto a chi si dedica alla politica. Anzi. Distrarre le gente dalla sua vocazione non funziona. Quale è il bacino di energie alle quali oggi può fare appello la politica?
Ci sono certamente, ma quali, dove? A quale chiamata potrebbero rispondere? Intorno ai processi deliberativi della trasformazione si possono convocare molti anche in ragione degli apporti che vengono da vocazioni sociali, civili, culturali, anziché politiche.
Tra molti che scrivono in questo sito, e presumo anche tra i lettori, c’è un’accumulazione di capitale umano esperto, di competenze collaudate, che forse non ha pari in altre formazioni politiche. Come quando si va in un luogo nel quale una valuta va convertita in un altro che abbia corso là, così questo capitale di conoscenze deve essere convertito in capitale politico, in capitale di iniziative di trasformazioni che abbiano corso politico. Ma per riuscire in questi cambio di valuta su larga scala, occorre – con parole non usuali nella militanza politica – che anche i più esperti si cimentino nell’acquisizione di nuove skills. Come farlo? Mi succede spesso di avere le domande, ma non di avere le risposte. Ma prossimamente farò un tentativo, non pensando che la mia risposta sia buona, ma sperando che ne solleciti altre migliori. È intuitivo però che strutturare la collaborazione tra generazioni sia l’accesso a questa prospettiva.
Vincenzo Mannino