Tra le tante dichiarazioni succedutesi a commento della sconfitta di Donald Trump colpisce in particolare quella di Giorgia Meloni. Sembra essersi molto immedesimata nella vicenda dell’ex Presidente Usa:“ Consiglierei di aspettare a darci per morti. Siamo vivi e vegeti”, ha dichiarato. Eppure, lei non sta in Oklahoma o nel Connecticut.
E’ un’iperbole politica o vuole forse dirci che esiste un’Internazionale del sovranismo populista contrapposta a tutti gli altri? Due entità indistinte di natura meta politica che, seguendo questa logica, ci farebbero ridurre il mondo, la complessità delle relazioni che vi si dispiegano, il conflitto o la collaborazione d’interessi che in esso hanno sede, in un grande Risiko composto da due soli territori impegnati in una lotta all’ultimo sangue.
La costruzione cinematografica che sottintende questa visione è, in fondo, la stessa di tutti gli estremismi, anche quello di Donald Trump, che hanno bisogno d’ignorare la complessità dei fenomeni e ridurre tutto a semplificazioni, a slogan propagandistici, a rendere immediatamente spendibili sentimenti di contrapposizione auto referenziali e auto rassicuranti.
L’idea che possa esistere e reggere un’alleanza di questo tipo non mette nel conto che, come dimostra il rapporto anche dell’Italia con gli Stati Uniti di Donald Trump, alte sono le possibilità che sovranismi retoricamente vicini possano sfociare inevitabilmente in un’inevitabile frizione, se non contrapposizione, tra di loro.
La Meloni, ad esempio, dovrebbe ben riflettere su come i dazi imposti da Trump alla Russia e all’Iran abbiano fortemente colpito parti della nostra economia. Nel primo caso, soprattutto nel settore agro alimentare; nel secondo, in quello dell’approvvigionamento petrolifero. L’uscita unilaterale statunitense dall’accordo sul nucleare con Teheran ha contribuito a rendere ulteriormente incandescente una regione a noi prossima qual è quella mediorientale e del Golfo. D’altro canto, la diplomazia del genero di Trump, Jared Kushner, ha portato a dei fatti del tutto inediti per ciò che riguarda la pacificazione tra Israele e alcuni stati arabi.
Il sovranismo trumpiano tiene in considerazione unilateralmente gli esclusivi interessi americani e, in questo, si trova una parte della giustificazione dei 70 milioni di voti raccolti da Donald Trump che resta, comunque, l’unico Presidente americano della storia recente a ricevere in due successive elezioni un voto popolare inferiore a quello dello sfidante. Con la Hillary Clinton gli andò bene, con Joe Biden no.
Come ci ha spiegato Giuseppe Sacco ( CLICCA QUI ), quella di Trump è una delle risposte possibili – ma la meno risolutiva a lungo termine – alla “profonda trasformazione del tessuto sociale degli Stati Uniti, e di una sua forte disgregazione”. Ciò ha fatto si che lui riuscisse ad aggregare  un consenso radicalizzato proveniente da larghi strati operai danneggiati dallo spostamento in massa delle attività manifatturiere verso la Cina. In misura ancora maggiore dagli occupati in settori in bilico, che temono di avere la stessa sorte di quelli già colpiti da quarant’anni di “outsourcing”.
A  queste vanno poi aggiunte tante altre cose, tra di loro persino contraddittorie. L’esempio più sgradevole, ma più significativo  è rappresentato dalle pulsioni razziste e antisemite, ma anche dal contemporaneo sostegno di una buona parte delle comunità ebraiche e degli ispanici della Florida e del Texas.
Come dimostrano tante interviste messe in onda dalle televisioni statunitensi, la sconfitta del Presidente uscente è soprattutto frutto della sua pessima gestione del Coronavirus. Molto voto tra i repubblicani anziani e tra i bianchi con elevato livello di istruzione lo ha abbandonato, a differenza di quanto accadde quattro anni fa.
La realtà, però, è che anche la gestione trumpiana del Coronavirus è figlia della cultura del sovranismo. E’ figlia di ogni visione suprematista fatta soprattutto di semplificazione. E’ paradossale, ne abbiamo già parlato agli inizi della pandemia, riconoscere in un certo tipo di politico decisionista e sovranista( in particolare Trump, Johnson e Bolsonaro ) quello che ha portato il proprio paese al più grave insuccesso nella lotta al Coronavirus.
Con la sconfitta di Trump molte cose cambieranno. Ma bisognerà fare attenzione a non sovra eccitarci su quello che potrà fare Joe Biden, al di là del cambio di linguaggio e del metodo che egli seguirà sia in politica interna, sia in campo internazionale.
Intanto, bisognerà vedere come andrà a finire tutta la vicenda dell’insediamento. Molti settori del partito repubblicano stanno lasciando al loro destino Trump, ma non per questo demorderanno dalla battaglia divenuta ancora più cruciale per la conquista della maggioranza del Senato rinviata al prossimo 5 gennaio in Georgia da dove dovrà arrivare il responso definitivo sul controllo della Camera alta.
Dopo di che vi sono tutte le questioni che Trump ha aperto al di fuori dello scacchiere mediorientale, e per le quali  sarà necessaria, eventualmente, un’opera di ricucitura in campo internazionale che a noi molto interessa perché riguarda i rapporti con l’Onu e con l’Europa, ma soprattutto con la Cina e la Russia.

Allora, la differenza sostanziale tra Trump e Biden forse si troverà  attorno al termine “multilateralità”. Cosa che significa il metodo con cui la nuova amministrazione si misurerà con le questioni del mondo che quelle sono e quelle restano indipendentemente dall’inquilino della Casa Bianca.

Una notazione finale riguarda le immediate reazioni internazionali alla vittoria di Biden ( CLICCA QUI ): Putin, il primo a farlo con Trump quattro anni fa, ancora non si è congratulato ufficialmente né ha chiamato al telefono il neo eletto. Lo stesso per quel che riguarda alcuni capi di stato europei e latino americani, come quelli della Slovenia, il brasiliano Bolsonaro, il messicano Lopez Obrador. Alcune congratulazioni sono giunte solo dopo 24 ore, vedi il caso di Cina e Arabia Saudita mentre del primo ministro israeliano Nethanyahu è stato notato che nel suo messaggio non abbia parlato di Presidente eletto.

Insomma, Joe Biden dovrà affrontare un bel cammino in salita.

Giancarlo Infante

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